lunedì 16 aprile 2012

IL SEGRETO SOPRENDENTE DELL'ACQUA CALDA

Dopo che comunicatori, consulenti d'azienda, responsabili delle risorse umane (termine davvero orrendo per indicare i dipendenti), counselor, coach e chi più ne ha più ne metta si sono spaccati la schiena a spaccare il capello in quattro per vestire l'impresa con un abito di tollerabilità sociale, di fatto siamo da capo. Vuoi colpa della crisi, vuoi tutta una serie di resistenze al cambiamento che da sempre caratterizzano, ancora prima della fissa del posto fisso, la modalità di gestire le aziende; tutte le "carte dei valori", "codici etici" e altri altisonanti proclami corrono il rischio di finire nell'odioso calderone delle buone prediche che presagiscono opposti comportamenti. La ragione è molto semplice. Le aziende, quasi tutte, non sanno mettersi se non sporadicamente, in una autentica posizione di ascolto. E come in tutte le relazioni, molto semplicemente, se non si sa ascoltare non si può pretendere di essere ascoltati. Premettiamo che l'ascolto non è un artificio ne una patente. E' chiaramente un'attitudine da esercitare giorno dopo giorno. Cosa c'entra tutto ciò con i social network? Per il momento, purtroppo, poco. E rischia di essere l'ennesima occasione mancata. Lo dimostra un testo, per ora non pubblicato in Italia, di Bradley e McDonald (due vicepresident di Gartner), che si chiama "The Social Organization". Il testo illustra come un'impresa tradizionale (ovvero taylorista o, se si preferisce, 1.0) possa trasformarsi in una organizzazione social (quindi postfordista ovvero basata su una concezione evoluta di Management 2.0). Un testo che, da subito, pone l'accento su un aspetto fondamentale quanto semplice. Riportare l'azienda, grazie a strumenti come i social network a riappropriarsi del suo status di "organizzazione sociale", e in quanto tale di generare creazione di valore attraverso l'attivazione di una “mass collaboration" che collettivizza la capacità, le competenze, i talenti e la creatività di un grandissimo numero di persone sparse per il mondo. Naturalmente siamo nell'are delle scelte strategiche e, oserei dire, alquanto radicali. Nel senso che non si può essere "social" a metà (ad esempio solo per ciò che concerne le politiche di vendita). Ma cosa significa innanzitutto "mass collaboration"? In primo luogo sono fondamentali tre elementi. Il social media (come veicolo di creazione di cultura aziendale), le community (ovvero i gruppi di persone focalizzate al perseguimento di un obiettivo comune) e una value proposition (l'obiettivo attorno al quale le community trovano la ragione della propria esistenza). Per dirla in breve il social media è il luogo della collaborazione, la community  definisce chi collabora e la value proposition il perchè della collaborazione. Poi naturalmente ogni collaborazione ha le sue regole. Bradley e Mac Donalds ne definiscono sei. La prima è la partecipazione e quindi la mobilitazione della community. Già a questo livello viene fuori un concetto che a molti manager suciterebbe immediatamente risolini sarcastici. Perchè si, una community ha bisogno di un ambiente conviviale, regolato quindi non da un freddo scambio di informazioni funzionali ma da una libertà di espressione che permetta ad ogni sigolo componente di poter liberamente esprimere se stesso senza il timore di essere lapidariamente giudicato o, peggio ancora, lapidato (leggi licenziamento in tronco). La seconda coordinata  è il lavoro collettivo. Che significa sostituire il concetto di "contributo" alla semplice "richiesta di prestazione" e, naturalmente, valorizzarlo al massimo. La terza regola è la trasparenza. Ovvero la possibilità di ogni singolo individuo di vedere i contributi degli altri. Che a loro volta possono aumentarli, modificarli, criticarli e commentarli. E così facendo attrarre ulteriori contributi. La quarta regola è l'indipendenza, ovvero la possibilità per ogni singolo membro della community di poter fornire il proprio contributo in piena autonomia, dovunque si trovi e qualunque sia il proprio ruolo. La quinta regola è la perseveranza, ovvero la definizione del flusso delle informazioni (quali devono essere catturate, quanto devono "vivere" e ogni quando devono essere aggiornate). La sesta regola, infine, è l'importanza della base, partendo dal principio (che peraltro è anche una risultanza delle precedenti coordinate) che una reale e autentica collaborazione di massa non può essere controllata dall'alto.
Direi che per molte aziende (ma soprattutto, visto che le aziende sono aggregazioni umane, per molti manager) già la metabolizzazione di questi sei parametri darebbe origine ad una svolta quasi epocale.
Ma una volta messo a punto il sistema è importante capire come farlo funzionare. E per il momento credo sia sufficiente ribadire il meccanismo ciclico di funzionamento delle comunità  attraverso lo schema contributo- feedback-valutazione e cambiamento.
Onestamente tutto quanto detto finora sembra banale e semplice. Quasi come la carta dei valori. Ma allora perchè realtà di primo piano (e parliamo non di fruttivendoli, ma di colossi planetari come McDonald's) sui social network e quindi sulla costruzione del loro "essere organizzazioni sociali " si incastrano? Secondo gli autori, e condivido pienamente, perchè ci si focalizza sull'aspetto tecnologico. Questo è un primo errore fatale quanto globale e madornale. Come se per usare un personal computer fosse necessario imparare prima i linguaggi di programmazione. In secondo luogo perchè i principi della collaborazione di massa non fanno, di fatto, parte del vocabolario aziendale. Poi perchè si utilizzano i social media per far passare tematiche che non richiedono una "mass collaboration": basta guardare molte delle pagine aziendali presenti su facebook per rendersi conto che, nella quasi totalità, non propongono iniziative in grado di attivare una reale interazione. Fosse anche un semplice commento. E da questo fatto discende immediatamente l'incapacità di proporre contenuti veramente coinvolgenti che fertilizzino il potenziale creativo delle community. Come fare quindi? Gli autori, da buoni americani, propongono un percorso in cinque  passi (è una loro fissa, che vale dagli alcolisti anonimi in poi). Il primo passo è lo sviluppo di una visione manageriale attraverso l'analisi di funzioni e  processi aziendali per capire quando è utile la collaborazione di massa e dove è utile (analizzando ad esempio se già sono presenti forme di collaborazione spontanee, come funzionano ecc...), l'esplicitazione degli obiettivi aziendali e le modalità attraverso cui ci si aspetta che le community producano i loro contributi.       
Poi serve, come sempre, la strategia. Una vera però.  E quindi selezionare tra le infinite community possibili quelle che davvero sono rilevanti per l'azienda e che è in grado di sostenere, determinare l'"investimento" materiale e immateriale destinato alle community e, infine, rendere chiaramente espliciti i criteri di selezione adottati. Il terzo passo è la focalizzazione della proposta valoriale, e cioè rendere chiara la ragione per cui le persone dovrebbero collaborare, ma soprattutto perchè dovrebbero continuare a collaborare. Tenendo il principio che se le community sono costantemente "in movimento", altrettanto lo deve essere la proposta valoriale. E quindi basta con gli editti scolpiti nella pietra e cominciamo a pensare in termini di mappe dinamiche ed evolutive. Il quarto passo è il lancio. Ovvero la definizione dell'esperienza di collaborazione che ci si attende, il piano di azione per il coinvolgimento dei membri della community e la messa a punto di un ambiente di collaborazione (che - attenzione - non va confuso con il canale ma è più assimilabile ad un sistema integrato e complementare di canali). In seguito è necessario guidare la community, e questo è decisamente il punto più delicato. Perchè qualsiasi manager sicuramente guarda con terrore al fatto che una volta che una community è stata lanciata e magari funziona pure bene, vive di vita propria. In questo caso è essenziale l'esercizio della "perdita del controllo pur mantenendo la guida". Non valgono più le autorità di ruolo (di autentica autorevolezza al contrario c'è sempre un gran bisogno). Serve "il managing by guiding from the middle". Passare da una logica prescrittiva ad una di attivazione della capacità comunicativa  e creativa.  L'ultimo passo infine è l'adattamento all'organizzazione. Laddove infatti una community, una volta lanciata, diventa "viva" e in "crescita", è altrettanto vero che per crescere deve essere nutrita, e per essere nutrita non deve diventare qualcosa di esterno all'organizzazione formale dell'azienda .
Ancora una volta siamo di fronte ad un percorso semplice e condivisibile non necessariamente sulla base di un dottorato ad Harvard (che anzi forse potrebbe essere disfunzionale). Eppure c'è bisogno di un libro. C'è bisogno di spiegare perchè, di fatto, niente si muove. Ancora una volta gli autori di "The Social Organization" ci vengono incontro. Anche con affermazioni molto dure (e che in quanto tali condivido pienamente). Ci dicono infatti che la cultura aziendale è folle, e non nel senso di Steve Jobs. I manager infatti continuano a pensare che i social media siano una "moda passeggera", una forma di intrattenimento per giovani nullafacenti, comunque qualcosa che è distante mille miglia dal business, salvo poi entrare in piena contraddizione con questo assunto con una presenza inadeguata su questi canali. In secondo luogo per molti i social media rapopresentano una minaccia alla produttività, sia in quanto luogo di "cazzeggio", sia in quanto potenziale e pericolosissimo veicolo di informazioni confidenziali. Poi, anche se nessuno sarebbe disposto a dichiararlo, essere "social" significa prendersi precise responsabilità valoriali e risponderne in prima persona. E' chiaro che la carta dei valori appesa negli uffici e "chi s'è visto s'è visto" appare una scorciatoia meno impegnativa. Sicuramente concetti quali co-creazione di valore o learning community richiedono un impegno di ben diversa portata. E qualcuno potrebbe obiettare che un modello come questo potrebbe di fatto condurre ad organizzazioni anarchiche o ingovernabili. Al contrario, la richiesta che emerge evidente è piutoosto un radicale cambiamento nella leadership, che come accennato prima, dall'alto si sposta verso il centro. Parliamo quindi di una leadreship capace di convocare e attivare. Ma anche anche di una leadership capace di catalizzare e sintetizzare. Una leadership spogliata di ogni autoreferenziatiltà. Il problema, secondo Bradley e McDonald, non è la quantità di management necessaria, ma la modalità di management. E i manager se da una parte mantengono la responsabilità sul risultato finale e devono comunque esercitare una guida che eviti fenomeni di frammentazione, allo stesso tempo devono essere partecipativi e quindi fare proprio il compito di rimuovere gli ostacoli alla collaborazione sostenendo la collettivizzazione di quanto la community produce. Devono poi fare in modo che lo sforzo sia coerente con la proposta valoriale definita ed essere disposti a ri-focalizzarla se in corso d'opera dovessero emergere nuove esigenze. Devono infine valorizzare la performace per fare in modo che quanto prodotto da ogni singola community diventi patrimonio collettivo e condiviso dell'intera organizzazione.
Credo che questa volta, siamo un attimo più in la rispetto alla solita metodica americana che propone cose di una banalità sconcertante ma dette benissimo. Perchè se di banalità si tratta cio che mi lascia perplesso semmai è che per arrivare a considerazioni tanto ovvie quanto estranee alle attuali politiche di management ci fosse bisogno di Facebook....  



   


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