martedì 16 luglio 2013
MATRICOLE
La crisi sicuramente ha effetti
molto strani. Da una parte c’è la logica, che io appoggio pienamente, della
spinta al cambiamento, della ricerca di nuove opportunità con tutti i rischi
che comporta. E che col “poco da perdere” forse tanto rischiosi non devono poi
essere. Dall’altra c’è la paura, la depressione, lo stare chiusi nella gabbia
perché ritenuta ultimo porto sicuro. Che è il modo più sicuro, a meno di
tempestivi interventi da parte dello Spirito Santo, per soccombere. Inutile
dire che la seconda strada è sicuramente la più battuta. Certo, le circostanze
esterne non aiutano, ma questa rischia di essere una scusa, fin troppo
pericolosa, per chiudere gli occhi rispetto a quello che c’è già. Il mondo
infatti, quasi incurante delle vicissitudini dello spread, continua nella sua
evoluzione. Le aziende no. Ovviamente quando parlo di rivoluzione parlo di
“social environment”, del sistema dei social network che ha completamente rinnovato
l’identità sociale di persone e organizzazioni e che, di conseguenza ha modificato,
ampliato e “aumentato” le modalità di governo dei cosiddetti “sistemi di
relazione”. E indipendentemente da tutte le profezie, dalle più catastrofiste
che lo vedono come l’ennesima “bolla” destinata ad esplodere da un momento
all’altro, alle più entusiaste che ne identificano un polo d’orbita pari come
importanza più o meno al sole nei confronti della terra, ci sono alcune
evidenze che non possono più essere ignorate. Innanzitutto le persone sono
tornate ad essere “persone”. Tutte intere e non scisse tra “padri di famiglia”
dalle 20 alle 22, gaudenti bon vivant successivamente e “professionisti duri e
puri” dalle 9 alle 18 con relativi codici di abbigliamento, comportamento,
segreti e bugie. E sarebbe un’opportunità incredibile anche per le aziende riuscire
a sfruttare questa “interezza” dei dipendenti. Significherebbe per loro tornare
ad essere quelle “organizzazioni sociali” tanto lette nei manuali di economia
aziendale quanto poco vissute nella realtà. Non solo. Le “organizzazioni
aziendali” potrebbero diventare “collaborative”, e in tal senso vi è già una
vasta e sensata letteratura in merito. Potrebbero avvalersi della cosiddetta
“intelligenza collettiva”, quella che nasce proprio dal mettere in dialogo
persone e professionalità non soltanto limitatamente a competenze da curriculum
e ruoli scolpiti su pietra e biglietti da visita. Anche su questo è già stato
scritto molto. Potrebbero, anche senza arrivare a tanto, beneficiare di un
clima armonico, motivato e pertanto incredibilmente più produttivo. Non per
ripetermi, ma anche su questo tema le aziende hanno scritto molto. Nei loro
manuali interni. Nelle famigerate “carte dei valori” (fino a poco tempo fa non c’era sala riunioni
che non ne annoverasse almeno tre). Nei welcome kit. E anche nei numerosissimi
corsi di formazione, team building, ritiri zen, soggiorni in barca a vela,
bungee jumping e beauty farm. Niente escluso e tutto a costi non proprio “low”.
Quante parole, quanti viaggi, quanti guru. Ma soprattutto “quanto rumore per
nulla”. Dato che tutto questo sforzo, viene legittimo chiedersi, dove è andato
a finire? Come mai il collega, che durante il weekend mi sembrava tanto
simpatico (e tanto sottovalutato), al lunedi mattina vederlo in camicia bianca
con quell’aria acidula dietro la scrivania mi provoca gli stessi attacchi
d’ulcera di prima? Come mai tutte le volte che sono a colloquio con il mio capo
ho la sensazione di un “doppio fondo” rispetto alle sue parole? Ma soprattutto
come mai in questo periodo di crisi le forse inevitabili decapitazioni
avvengono con modalità spesso più cruente della rivoluzione francese? Dove sono
finite le “carte valoriali”, lo “spirito di squadra” e tutto il resto? Sono
caduti. Come cristalli sotto il sisma della crisi. Perché forse erano troppo
fragili. O forse perché non coltivati in modo autentico. Si, questa ipotesi è
decisamente la più convincente. Le aziende, per troppo tempo, hanno delegato a
guru, beauty farm e ritiri zen, alcune responsabilità che invece erano
squisitamente dei manager. Non che si voglia mettere in dubbio l’utilità degli
strumenti formativi. Ma la loro funzione è limitata alla messa in moto un processo. Che se non viene
alimentato muore immediatamente. Succede così anche in famiglia: potremmo
pensare di conquistare l’amore di un
figlio mandandolo semplicemente un mese in vacanza in California? Temo di no. E
questo di fatto è ciò che è successo alle aziende. Hanno dichiarato di “amare i
loro dipendenti” e per dimostrarlo hanno offerto loro un sogno. Poi l’hanno
tradito. Il risultato? Deprimente.
Perché oggi l’aria che si respira nelle aziende è davvero pesante. Vige la
legge del “mors tua, vita mea”, dell’oggi a te, domani a me. I dipendenti, quelli
che oggi potrebbero essere “interi” e “integri” per se stessi e per le aziende,
si sentono invece “risorse solo a tratti umane”. Lavorano come possono, perché
uno stipendio a casa bisogna portarlo e con una spada di Damocle sulla testa.
Rappresentata da quel colloquio con la porta che si chiude definitivamente
dietro le spalle. Che, ogni volta che succede, dona un tiepido e temporaneo
sospiro di sollievo per chi può ancora timbrare il cartellino ma che, allo
stesso tempo, fa diventare quel cartellino una carta d’identità. Con il numero
di matricola al posto del nome. Proprio nell’era in cui tutti siamo sul libro
delle facce, con la nostra immagine, un nome e un cognome. Quel libro che le
aziende liquidano velocemente come “roba da ragazzini” o “nuovo strumento
promozionale”. Da cui invece potrebbero imparare il potere del dialogo
“autentico”. Che non sarà la panacea per la crisi. Che forse in un momento così
complesso pensare a cose come lo “humanistic
management” richiede il coraggio dell’utopia e tale coraggio non è
proprio da tutti. Ma la mancanza di coraggio, o la difficoltà di visione non
può certo essere ragione plausibile per il recupero in chiave riabilitativa dei
principi del Taylorismo.
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