martedì 3 luglio 2012

TRUE LIES

Ok, mi sono sbagliato. Almeno in parte. Pur avendo sempre avuto un occhio abbastanza critico rispetto al libro delle facce e ai cinguettii, di una cosa ero relativamente certo. L’autenticità. Perché ci si mette la faccia. Perché ci si espone (forse anche troppo), con le proprie idee, i propri credo e le proprie convinzioni. Forse in maniera eccessiva, a volte compulsiva, ma tutto sommato reale. E pur senza negare che il meccanismo alla base del successo dei social network fosse l’insano piacere di farsi i fatti degli altri (e di offrire i propri), trovavo che tale meccanismo fosse tutto sommato onesto in quanto chiaro ed esplicito. Si intende, non in termini assoluti. Anche a me come ad altri è successo di ricevere richieste d’amicizia da Katiuscia Spencer (con foto da Playmate a corredo). Ma in questi rari casi l’idiozia viene prima della disonestà e con essa lo smaltimento della richiesta nella sezione “rifiuti indifferenziati”. Peraltro ho sempre apprezzato, pur senza smettere di leggere i giornali, il flusso di informazioni che scorreva a suon di passaparola tra le pagine dei social media. In primo luogo perché sui social media spesso circola quell’informazione che la carta stampata, così timorosa di offendere questo o quello, non pubblica più (tralascio il caso Euro2012 con i ”Vaffanmerkel” e “Ciao Ciao Culona” di Libero e Il Giornale, che dal mio punto di vista è spazzatura indifferenziata e non certo giornalismo). In secondo luogo perché se una notizia mi viene riportata da un amico con il quale condivido un determinato sistema di valori, quella notizia sarà credibile e autorevole per definizione. Anzi, proprio i Vaffa e Culona, che sono quasi riusciti a suscitarmi un’ombra di pietà per la monolitica Merkel, mi hanno convinto che la rovina della carta stampata non è l’open journalism ma la qualità da cortile che ha assunto il giornalismo di certe testate. Detto questo mi sono reso conto che la cialtroneria a cui ci hanno abituati alcuni media cosiddetti tradizionali è arrivata anche sui social media. Ed è più pericolosa, dal momento in cui la bufala mi viene passata, in buona fede, da un amico che a sua volta l’ha ricevuta in buona fede, da un altro fidatissimo amico. Andiamo al sodo. Qualche giorno fa, un blog molto seguito pubblica la notizia secondo cui la senatrice Paola Binetti (già nota per posizioni dal sapore medievale in tema di psichiatria, omofobia e chi più ne ha più ne metta) avrebbe affermato un secco no alle terapia del dolore per i bambini malati di cancro in quanto “è giusto che anche loro portino la croce di Gesù”. Una bella bestemmia direi. Che nel giro di pochi secondi è rimbalzata su centinaia di blog, Twitter e pagine Facebook (compresa la mia). Accompagnata da ovvi commenti di sdegno e disgusto. Per quanto riguarda la signora Binetti, sicuramente nel corso degli anni non ci ha fatto mancare valide motivazioni che ne giustificassero la messa all’indice. Ma non questa. Perché, semplicemente Paola Binetti non ha mai pronunciato queste parole. Le ha smentite, tempestivamente e categoricamente, attraverso la sua pagina di Facebook. Ma la risonanza della sua smentita ha avuto anche meno successo dell’Italia alla finale di Euro2012. Dal momento che nessuno di coloro si è fatto portavoce di cotanta bestialità ha avuto l’umiltà di smentire. Io l’ho fatto. Per senso di civiltà. Per amore di giustizia e sentendomi pure un po’ idiota per essermi lasciato ingolosire dalla fin troppo ghiotta opportunità di dare addosso alla Binetti. Ma sono anche un po’ preoccupato. Perché quel pettegolo, anarchico ma allo stesso tempo onesto e sincero veicolo di condivisione chiamato Facebook forse tutta questa fiducia non la merita. Perché, anche se è un caso isolato, è un caso di assoluta gravità, visto che su certi argomenti non si può agire con leggerezza. Perché l’irresponsabilità dell’autore originario della bufala è, quasi pari a quella di coloro che, seppur con le attenuanti generiche della buona fede e dell’inconsapevolezza, l’hanno trasformata in “breaking news” senza possibilità di replica. Perché se Facebook, a livello di sistema, è un bene pubblico e aperto, non credo che qualcuno abbia il diritto di minarne la credibilità e, peggio ancora, di farlo attraverso me. Perché non avrei mai pensato di dovermi sentire in dovere, da onesto cittadino, di dovermi trovare un giorno a scrivere un post a difesa di Paola Binetti. Scoprendo così che il famoso detto “è la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente”, potesse avere una nuova brutale frontiera. Proprio sulla mia pagina Facebook.