mercoledì 5 dicembre 2012

LA (MENO) PEGGIO COMUNICAZIONE

Per qualche giorno, pur avendo chiare idee in merito, sono stato alquanto titubante sull'opportunità di commentare o analizzare le campagne messe in atto dai leader del centrosinistra italiano in occasione delle primarie. Un po' perchè temevo di essere parziale (anche le pietre sanno da che parte sto). Un po' perchè erano già state ampiamente vivisezionate da tutti. Con toni più o meno forti, soprattutto nel confronto insostenibile con l'Obama Style. Alla fine è prevalsa la passione dell'"operaio della comunicazione" e quindi ecco l'ennesima analisi. Anche stimolata dal sempre acuto Curzio Maltese, che dalle pagine di Repubblica parla di "Sconfitta dei Comunicatori". E mi trova solo parzialmente d'accordo. Maltese dichiara che "dopo un ventennio di berlusconismo il risultato delle primarie del Pd sembra dire che la telepolitica in Italia è morta e i social network non l’hanno ancora sostituita". Non è così vero. La telepolitica, non è affatto morta. Certo, ci siamo lasciati alle spalle una certa propaganda "forzuta" e condotta "porta a porta", dove al dibattito era sostituita la telepromozione (su un milione di posti di lavoro, sul presidente operaio, sul ponte sullo stretto e così via). Quella nuova forse deve ancora trovare una sua strada, che sicuramente non è quella di X-Factor, ma che, nel riportare in vita un certo tipo di confronto diretto e non necessariamente con il coltello fra i denti, ha già segnato una svolta. E per quanto riguarda i social network non sono stati così laterali. Hanno dato una continuità al dibattito, lo hanno ampliato e circostanziato. E se non hanno sostituito il mezzo televisivo (ma non credo sia questo il loro ruolo) di certo lo hanno condizionato. Sarebbe infatti stato assolutamente insensato che il dibattito catodico non tenesse conto degli umori e delle opinioni così chiaramente manifestate a suon di post e cinguettii. Peraltro, in Italia, ad essere ascoltati non è che siamo così tanto abituati. Sempre secondo Maltese poi ha stravinto il candidato che ha comunicato peggio. E come provocazione posso anche apprezzarla. Ma diamo un significato al "peggio". Se il peggio infatti è una comunicazione che rinuncia al "make-up", alle seduzioni forzate e ai ridondanti coup de théatre per lasciare spazio all'autenticità genuina e alla "sostanza", le primarie hanno sicuramente inaugurato l'era della "peggio comunicazione". Ma non perchè Bersani sia la "negazione del comunicatore". Partiamo infatti dal sano e vecchio principio che la comunicazione, nel suo essere specchio della realtà, non è nè buona nè cattiva ma va semplicemente valutata col metro della coerenza. Sotto questo profilo, Bersani, nella sua rinuncia alla gigioneria e con quell'aria di essere "tirato in mezzo suo malgrado" è stato pienamente coerente con se stesso. E quindi credibile. Sarà anche "peggio comunicazione" ma, nell'era di Facebook funziona, premia e questo basta per ribaltarne la valenza. Ma adesso prendiamoci qualche minuto per analizzare la "meglio comunicazione". Quella di Matteo Renzi. Non nascondiamoci dietro a un dito. Il fatto di essere giovane, con un volto da boy-scout e dotato di una verve toscana doc gli da sicuramente una rendita di posizione. E questa se la porta a casa indipendentemente dal risultato elettorale. Ma nel suo caso mi trovo completamente d'accordo con Maltese e in disaccordo con il suo titolista (che evidentemente l'articolo l'ha letto male). In primo luogo perchè Renzi ha sbagliato la sua Unique Selling Proposition. Porsi come l'uomo di sinistra che piace alla destra e che pur di piacere alla destra dimentica di essere un uomo di sinistra arrivando a proporne la rottamazione ha posto un interrogativo e non da poco sulla sua reale identità. In secondo luogo l'errore più clamoroso è stato quello di darsi una Unique Selling Proposition. In un momento in cui l'obiettivo non era di porre una differenza rispetto agli avversari che, rappresentando la sua stessa comunità di riferimento, proprio così avversari non sono. Al contrario l'obiettivo vero doveva essere rendersi maggiormente rappresentativo di quella stessa comunità. Usando un po' meno il piccone e un po' più la forza delle idee e, perchè no, di un retaggio culturale tutt'altro che da rottamare. Usando un po' meno e un po' meglio i testimonial. Da Jovanotti a Lele Mora passando per Marcello Dell'Utri e addirittura (quasi) Silvio Berlusconi. Che è un po' come se la comunità ebraica scegliesse di farsi rappresentare da Forza Nuova. Ma il "peccato originale" di Matteo Renzi è stato affidare la sua campagna a Giorgio Gori. Non si tratta, come sparato a caratteri cubitali dal titolista di Repubblica, della "Sconfitta dei Comunicatori". Giorgio Gori, infatti non è un comunicatore. Da sempre fa un altro mestiere. Il produttore televisivo per la precisione. E su questa base ha lavorato con Renzi come con un concorrente del Grande Fratello. Giocando esclusivamente su una iper-esposizione da un tanto al chilo. Proprio nel momento in cui, vivaddio, la politica "un tanto al chilo e gnocca per tutti" sembra essersi finalmente e definitivamente avviata sul viale del tramonto. Quindi i comunicatori, che possono essersi macchiati di molte nefandezze in passato, almeno in questa occasione sono fuori gioco. A tal punto che, anche da comunicatore, non sono mai stato sfiorato dall'idea che una faccia paciosa e salottiera fosse sufficiente a presupporre un cambiamento che giustificasse la mia preferenza elettorale. Ma questa è un'altra storia...

domenica 28 ottobre 2012

TUTTA UN'ALTRA STORIA


Dopo l'ultima lettura dell'ennesimo decalogo, pentateuco e tavole della legge sul cosiddetto "social marketing" sono rimasto alquanto perplesso. Perchè, gli autori (in gran parte autorevoli luminari universitari cresciuti a Kotler e un po' troppo fermi su Kotler) continuano ancora a considerarlo una declinazione del marketing tradizionale. E anche in un senso un po' rozzo. Molti di loro si limitano ad anteporre la parola "social" al tradizionale lessico markettaro (e quindi social positioning, social branding ecc.) e il gioco è fatto. E perso. Il mondo "social", e lo dico da non nativo e men che meno smanettone, è un altro mondo. Che non si può descrivere semplicemente rinominando ciò che è già stato scritto. Quello che c'è già va bene, lo abbiamo assimilato e lo diamo per scontato. Adesso cominciamo a scrivere i nuovi capitoli. Che non hanno bisogno di voli pindarici e di seduttive suggestioni: basta un sano realismo deduttivo, empirico e fenomenologico. Ovvero osserva quello che c'è, vedi come funziona e poi usalo. Certo è uno sforzo culturale non da poco. Ma, come dice la signora Fornero, non c'è da fare gli schizzinosi. Tanto più che questo mondo così nuovo, tecnologico e avanzato richiede uno sforzo di apprendimento culturale che trova soluzione forse più efficace nei manuali di vendita Avon che nei vangeli del marketing.  E' una provocazione ma, ancora prima, è la realtà. Le presentatrici Avon, da sempre, si propongono suonando alle porte delle case. Carine, sobrie e rassicuranti. Per farsi aprire, entrare e farsi offrire un caffè. Che significa guadagnarsi l'ascolto. Prima regola della "réclame" ai tempi di Facebook. Avere una faccia educata e, possibilmente non supponente. Perchè anche in questo caso stiamo entrando nelle case della gente. Perchè se il saper parlare è importante, lo è ancora di più la consapevolezza che dall'altra parte della porta non c'è un "blob" informe e gelatinoso che muore dalla voglia di sapere di noi. Tutt'altro. C'è gente vera. Molti ragionano anche, hanno poco tempo e se non abbiamo argomenti convincenti attivano subito la modalità "testimonidigeovaladomenicallalba". Ci insultano. Ad alta voce, pubblicamente e malauguranti. Una volta entrati in casa entra in gioco il linguaggio. Una presentatrice Avon sa sempre di parlare con una come lei. E' un'amica. E con un'amica si parla di argomenti veri. Le si chiede come sta e ci si mostra interessati alla sua vita, al suo mondo e i suoi bisogni. Possibilmente in modo verosimile. Non basta il biglietto da visita in cui ci si presenta come "esperti dei capelli ricci" (che nonostante il progresso non è ancora materia universitaria), ne con la gallina Rosita (che può attivare offensivi e controproducenti sospetti di identificazione, a meno che la presentatrice non sia Antonio Banderas). E' necessario creare un contesto. E se in tale contesto è il prodotto a parlare, è bene accertarsi che non parli solo di se. E quindi non dobbiamo stupirci se Control in televisione fa l'amore con tutti mentre su Facebook discorre, autorevolmente, sui temi legati all'egoismo nella vita di coppia. Mica male per il cappuccetto promiscuo. La nostra presentatrice Avon, a questo punto, dopo essersi conquistata poltrona, dialogo e confidenza della padrona di casa le presenta non prodotti, ma "la soluzione" ai suoi bisogni di essere più attraente. E sarà "una soluzione a misura di faccia": una diversa dall'altra. E non lo farà con un semplice messaggio stile "perchè tu vali". Argomenterà, racconterà di altre donne che hanno risolto con successo lo stesso problema. Sarà una "storyteller" del fascino e non una semplice "strillona di slogan". Infine sarà pronta a raccogliere eventuali lamentele in caso i prodotti non abbiano generato il risultato atteso. Se ne farà carico responsabilmente. Sicuramente non tenterà di "cancellare l'amica" (come invece fanno molte aziende multinazionali sui social media). Il resto della storia è prevedibile. Ci sarà un ordine firmato e, probabilmente, altre visite gradite, altri ordini firmati e così via. Si, mi rendo conto che il metodo Avon, nel suo empirismo un po' naif, non può reggere con gli onorari della categoria "splendido consulente strategico di comunicazione". Ma in primo luogo funziona. In secondo luogo la strategia c'è eccome. Solo viene spogliata da molte desinenze in "ing". Infine se per volare oggi si usa l'aquilone, avere la più alta conoscenza delle leggi dell'aerodinamica serve, mentre tentare di applicare all'aquilone i motori di un 747 è inutilmente dispendioso e, ancora prima, folle. E quindi non è un caso che mentre molti "social influencer" si affannano a pontificare  decaloghi e pentateuchi su quello che dovrebbero fare le piccole medie imprese per approcciare il cosiddetto social marketing, non si rendono conto che molte di esse già lo fanno. Con meno pretese e con più efficacia. Sulla base di un'esperienza maturata anno dopo anno, di porta in porta e mettendoci la faccia. Quella vera e che apre molte porte. Ed è tutt'altra storia.                  

martedì 11 settembre 2012

IL CURIOSO CASO DI BILLY IL BUGIARDO E LILLI LA ROSSA.

Parto da Billy. Non per sciocchi corporativismi maschilisti ma perchè sulla rete mi è capitato di vedere il suo discorso alla Democrats National Convention cinque giorni fa. Si, parlo di Bill Clinton, l'ex presidente che ha rischiato di diventare ex anzitempo per non aver saputo tenere su la zip con una stagista peraltro assai bruttina. E che, beccato dal mondo intero, ha reagito con il classico "non è come tu pensi". Accreditandosi così come bugiardo fedifrago su scala globale. Bene. Sarà pure un fedifrago, ma è un comunicatore eccellente. E in questa occasione lo dimostra ampiamente, provando una volta di più che l'efficacia del saper parlare in pubblico non è solo questione di posture e di manualetti di autoformazione in 10 passi. Del discorso del buon vecchio Bill, aldilà del dare per scontata la "proprietà" dell'argomento, dello sorytelling e tutte le regole base del public speaking, colpisce il suo essere "genuino". Nel senso che "sente", e profondamente quello che dice. E' lui il primo ad essere appassionato. Si comporta, in grande stile ovviamente, come chiunque di noi quando è chiamato ad affrontare un argomento a cui tiene con persone che reputa importanti. Quelle occasioni in cui, con queste premesse, chiunque di noi sa essere spontaneamente efficace, coinvolgente e convincente. E naturalmente agli antipodi rispetto a certe dinamiche puramente "seduttive" che, mi spiace per chi ha speso molti quattrini per apprenderle, non seducono più proprio nessuno. Poi Speaking Bill è "democratico", nel senso che parla da cittadino ai cittadini e da cittadino impegnato. Qualcuno in cui chiunque può o, se non può desidera, rispecchiarsi. Senza alcun bisogno di "casacche". E questo gli consente, oltre che di essere diretto, di essere credibile, laddove il ruolo, nella comunicazione politica come in quella aziendale, delimita un perimetro organizzativo e di competenza ma non è più garante di soggezione d’ascolto passivo. E’ inoltre educato e rispettoso e – mi si permetta – non sono due frivoli attributi da manuale di bon ton. Sono il segnale di un mondo che è cambiato. Che alla “vis polemica” del duello contrappone la forza dell’affermazione dei propri contenuti. Non è un caso che a Milano, il colpo basso inferto a Pisapia da Letizia Moratti nel dibattito televisivo abbia contribuito considerevolmente e senza possibiltà di recupero alla disfatta elettorale della medesima. Inoltre e infine, il buon vecchio Bill, è “gestaltico”. Fa emergere un tema dallo sfondo, lo porta in figura e lo affronta quasi parlando con il tema stesso. Non nascondendo, ma anzi amplificando le risonanze emotive. Poi lascia che la figura ritorni sullo sfondo per permettere al tema successivo di rendersi percepibile. E in virtù di ciò riesce ad essere empatico. Osservando la reazione del pubblico è più che evidente che gli applausi non sono un segno di entusiasta ammirazione. Sono un chiaro segnale di condivisione, anche emotiva, nell’ambito di una relazione profonda. Certo in parte è questione di carisma (e questo non si impara). Ma molto probabilmente è anche saper fare di necessità virtù. E in questo Billy è stato grande. La prova? Basta andare a vedere (sempre su YouTube) la rigidità impacciata ed "evitante" con cui il fedifrago Bill dichiarava pubblicamente di non aver mai avuto rapporti sessuali con la signorina Lewinsky.
Ora, facciamo un viaggio nello spazio (nel senso che torniamo in Italia) e nel tempo (fermandoci agli anni '80). Allora c'era una giovane giornalista televisiva altoatesina. Si chiamava Dietlinde Gruber, o, più semplicement,e Lilli. Intelligente, acuta, bella. Tanto che, in quegli anni, viene chiamata a testimoniare i fatti che sarebbero entrati nei libri di storia. Cose come la caduta del muro di Berlino o la guerra del Golfo. Ma non sarà quello e neppure la successiva carriera politica ciò per cui Lilli viene, dai più, ricordata. La sua icona è il mezzobusto con il braccio appoggiato sulla scrivania a protendere il corpo verso il pubblico catodico. Il tono di voce assertivo e autorevole, punteggiato da leggeri movimenti del mento. Lo sguardo fisso negli occhi di milioni di persone. Un'emotività assolutamente controllata. Un look impeccabile (per l'epoca si intende: oggi sarebbe tra l'eccessivo e il fetish). Uno stile di comunicazione algido, decisamente "dall'alto verso il basso", e in quanto tale fatalmente seduttivo. Questo è stato sufficiente a imporre la rossa Lilli come calco sul quale modellare la teoria del "public speaking" all'italiana. Anche per coloro, gli uomini di azienda appunto, che non potevano puntare su smottamenti ormonali appoggiando garbatamente e di lato il busto sulla scrivania. Un modello sopravvissuto fino ad oggi, nonostante la rossa Lilli abbia cambiato registro, gonfiato le labbra a dismisura e da "giornalista dei fatti che cambiano la storia" sia diventata "giornalista e basta". Peraltro controversa. Visto che nella sua pagina Facebook (sulla quale lei non interviene mai, e viene il legittimo dubbio di chiedersi a cosa serva) vi sono solo post promozionali del suo talk show, commentati con frasi del tipo "dove hai comprato gli orecchini?" o "la sua intervista a Favia è disgustosa". Commenti ovviamente non replicati. Al contrario, Billy ha un profilo Facebook intitolato "Bill Clinton Back to Work". Una foto con un sorriso da vicino di casa che ti saluta dalla porta, e poi naturalmente grandi argomenti che animano dibattiti che arrivano fino in Cina. Certo, il paragone è azzardato e paradossale. E' ovvio che passa alla storia chi ne è protagonista, non chi si limita a testimoniarla. Ma noi stiamo parlando di comunicazione, mica di chi è stato più bravo a cambiare il mondo. E visto che insieme al mondo, evidentemente cambia anche il mondo della comunicazione non sarebbe il caso di fare qualche aggiornamento? Fosse anche cominciando dai modelli di riferimento per i manuali e i corsi di public speaking.

martedì 3 luglio 2012

TRUE LIES

Ok, mi sono sbagliato. Almeno in parte. Pur avendo sempre avuto un occhio abbastanza critico rispetto al libro delle facce e ai cinguettii, di una cosa ero relativamente certo. L’autenticità. Perché ci si mette la faccia. Perché ci si espone (forse anche troppo), con le proprie idee, i propri credo e le proprie convinzioni. Forse in maniera eccessiva, a volte compulsiva, ma tutto sommato reale. E pur senza negare che il meccanismo alla base del successo dei social network fosse l’insano piacere di farsi i fatti degli altri (e di offrire i propri), trovavo che tale meccanismo fosse tutto sommato onesto in quanto chiaro ed esplicito. Si intende, non in termini assoluti. Anche a me come ad altri è successo di ricevere richieste d’amicizia da Katiuscia Spencer (con foto da Playmate a corredo). Ma in questi rari casi l’idiozia viene prima della disonestà e con essa lo smaltimento della richiesta nella sezione “rifiuti indifferenziati”. Peraltro ho sempre apprezzato, pur senza smettere di leggere i giornali, il flusso di informazioni che scorreva a suon di passaparola tra le pagine dei social media. In primo luogo perché sui social media spesso circola quell’informazione che la carta stampata, così timorosa di offendere questo o quello, non pubblica più (tralascio il caso Euro2012 con i ”Vaffanmerkel” e “Ciao Ciao Culona” di Libero e Il Giornale, che dal mio punto di vista è spazzatura indifferenziata e non certo giornalismo). In secondo luogo perché se una notizia mi viene riportata da un amico con il quale condivido un determinato sistema di valori, quella notizia sarà credibile e autorevole per definizione. Anzi, proprio i Vaffa e Culona, che sono quasi riusciti a suscitarmi un’ombra di pietà per la monolitica Merkel, mi hanno convinto che la rovina della carta stampata non è l’open journalism ma la qualità da cortile che ha assunto il giornalismo di certe testate. Detto questo mi sono reso conto che la cialtroneria a cui ci hanno abituati alcuni media cosiddetti tradizionali è arrivata anche sui social media. Ed è più pericolosa, dal momento in cui la bufala mi viene passata, in buona fede, da un amico che a sua volta l’ha ricevuta in buona fede, da un altro fidatissimo amico. Andiamo al sodo. Qualche giorno fa, un blog molto seguito pubblica la notizia secondo cui la senatrice Paola Binetti (già nota per posizioni dal sapore medievale in tema di psichiatria, omofobia e chi più ne ha più ne metta) avrebbe affermato un secco no alle terapia del dolore per i bambini malati di cancro in quanto “è giusto che anche loro portino la croce di Gesù”. Una bella bestemmia direi. Che nel giro di pochi secondi è rimbalzata su centinaia di blog, Twitter e pagine Facebook (compresa la mia). Accompagnata da ovvi commenti di sdegno e disgusto. Per quanto riguarda la signora Binetti, sicuramente nel corso degli anni non ci ha fatto mancare valide motivazioni che ne giustificassero la messa all’indice. Ma non questa. Perché, semplicemente Paola Binetti non ha mai pronunciato queste parole. Le ha smentite, tempestivamente e categoricamente, attraverso la sua pagina di Facebook. Ma la risonanza della sua smentita ha avuto anche meno successo dell’Italia alla finale di Euro2012. Dal momento che nessuno di coloro si è fatto portavoce di cotanta bestialità ha avuto l’umiltà di smentire. Io l’ho fatto. Per senso di civiltà. Per amore di giustizia e sentendomi pure un po’ idiota per essermi lasciato ingolosire dalla fin troppo ghiotta opportunità di dare addosso alla Binetti. Ma sono anche un po’ preoccupato. Perché quel pettegolo, anarchico ma allo stesso tempo onesto e sincero veicolo di condivisione chiamato Facebook forse tutta questa fiducia non la merita. Perché, anche se è un caso isolato, è un caso di assoluta gravità, visto che su certi argomenti non si può agire con leggerezza. Perché l’irresponsabilità dell’autore originario della bufala è, quasi pari a quella di coloro che, seppur con le attenuanti generiche della buona fede e dell’inconsapevolezza, l’hanno trasformata in “breaking news” senza possibilità di replica. Perché se Facebook, a livello di sistema, è un bene pubblico e aperto, non credo che qualcuno abbia il diritto di minarne la credibilità e, peggio ancora, di farlo attraverso me. Perché non avrei mai pensato di dovermi sentire in dovere, da onesto cittadino, di dovermi trovare un giorno a scrivere un post a difesa di Paola Binetti. Scoprendo così che il famoso detto “è la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente”, potesse avere una nuova brutale frontiera. Proprio sulla mia pagina Facebook.

mercoledì 13 giugno 2012

IO CONFESSO

Ieri mi è capitato di leggere un commento al precedente post sul come far capire ai clienti e ai comunicatori la differenza fra “essere” su un social network e “utilizzare” i social media. Credo che il problema sia più complesso e venga prima di Facebook. Riguarda i comunicatori, la loro credibilità e la capacità di persuadere se stessi e i clienti che ciò che fanno è veramente di valore. Riguarda quello che sta in mezzo al dire e al fare. Ne parlo a ragion veduta, essendo un comunicatore da più di vent’anni e avendo visto quindi la caduta di molti professionisti dal “paradiso dei consulenti in comunicazione” (che nessuno sapeva chi erano ma erano profondamente rispettati) al girone dei “comunicatori” (che tutti sanno chi sono ma non è sempre un buon motivo per starli ad ascoltare). Che cosa è successo? E’ semplicemente colpa della crisi? I tempi che cambiano? Ci sta tutto. Anche la dichiarazione alla radio di una nota cantante italiana che, interrogata sul proprio curriculum scolastico, ha affermato di essersi laureata in “stronzologia”, e cioè in relazioni pubbliche. Inutile dire che una dichiarazione del genere vent’anni fa non si sarebbe mai sentita. Comunque sia, giusto per rimanere nella tradizione, la caduta dal paradiso, è sempre conseguente a una ripetuta indulgenza al peccato capitale o al definitivo cedimento alle tentazioni di Satana. Probabilmente alcuni comunicatori non si sono fatti mancare niente. Quindi conviene inginocchiarsi nel confessionale e sperare in una redenzione. O almeno scongiurare la caduta nel girone inferiore a sostituire i carabinieri nelle barzellette. E quindi eccomi qua a confessare i peccati. Non i miei, ne quelli dei colleghi attuali e passati (non vorrei giocarmi centinaia di amici con un post). Diciamo che me li ha confidati mio cugino. E io mi confesso in sua vece. 1.Menzogna. Beh, visto che parliamo di comunicazione questo direi che è il peccato originale. E puntualmente smascherato. Non parlo di cose necessariamente grosse come presentare strategie “detto-fatto” quando non basterebbe neppure l’intervento della Madonna di Lourdes. Parlo anche delle tante “mezze verità”. Quelle che messe in fila in un mese fanno dieci mancate verità belle piene. Cose come “noi (il plurale solenne è di rigore) abbiamo un tool specificatamente studiato dai colleghi d’oltreoceano (fa figo) per il mercato delle bare”, oppure “anche se il budget non lo consentirebbe ti mettiamo a disposizione un team di 5 persone interamente dedicato (siamo io, Bart Simpson e i quattro bambini di South Park)”. Di esempi ce ne sarebbero a milioni, a partire dall’elenco delle credenziali contenuto in molte presentazioni. Chi persiste in queste pratiche sappia che nell’epoca dei social network lo sputtanamento è a portata di clic. 2. Avidità. I soldi contano non solo per noi, ma anche per i clienti. E se non va bene vendersi un tanto al chilo, va peggio vendere princisbecco facendolo passare per oro. Una volta si vendeva consulenza, strategia e strumenti operativi. Poi si è cominciato a vendere strumenti chiamandoli consulenza e strategia (pur di venderli a un prezzo più alto). Oggi ci si ritrova a vendere strumenti e servizi e si fa fatica a farseli pagare a prezzo equo. O a farseli pagare. 3. Superbia. La realtà aumentata, tanto di moda oggi è un concetto opposto all’aumentare la realtà. E quindi l’aver passato l’adolescenza all’Università del Commodore 64 non fa di noi dei laureati in comunicazione digitale. Avere Barack Obama fra gli “amici” di Facebook non è farci le vacanze insieme. Resistere all’ansia da red carpet per un comunicatore non è facile. L’imbarazzo dello sputtanamento – sempre dietro un clic - è anche più difficile. Spesso irreparabile. 4. Piaggeria. Diciamocelo: il cliente non ha sempre ragione. Quindi perché ostinarsi a dargliela? Un conto è consigliare (quello che fanno i consulenti), un conto è assecondare aldilà del ragionevole. Lo fanno gli psichiatri. Con i pazzi. E i clienti, oltre a non pagare per essere trattati da pazzi, se ne accorgono subito. Anche senza i suggerimenti dei social network. E’ sufficiente capirli. O, per i più esigenti, accudirli. Mi riferisco a cose piccole, come un drink o un locale di striptease per rilassarsi un po’ (questo, confesso di averlo fatto: è grave?). 5. Autoplagio. E’ un peccato minore. Ma ripetuto oltre il ragionevole. Parlo dei progetti fotocopia. Fotocopiati mese dopo mese e dove l’unica cosa che cambia è il logo del cliente. O dei progetti collage: un pezzo da questo, uno da quell’altro, cut and paste, said and done. Fermo restando che dall’epoca della scuola abbiamo appreso che copiare salva la vita, ora dobbiamo realizzare che copiare troppo rende ciechi. E smettiamola di pensare che i progetti siano custoditi gelosamente come il terzo segreto di Fatima. Girano. Di mano in mano. Di cliente in cliente. Di comunicatore in comunicatore (in questo caso viene cambiato anche il logo dell’agenzia). Alla faccia di tutte le Unique Selling Proposition del pianeta. 6. Arroganza. Questo vale anche, e molto, per i giovani comunicatori. Quelli che di fronte allo sconforto del cliente e alla prospettiva di passare un ulteriore weekend per cambiare rotta continuano per la loro strada e chi non capisce è un imbecille. Io questo peccato l’ho praticato poco, ma in veste di cliente l’ho subito abbastanza. E in quei – penosi – momenti pensavo “sarò anche un imbecille perché non capisco la tua genialità, ma proprio per questo mi cerco un imbecille che capisca me”. Ma se già abbiamo identificato la piaggeria come peccato capitale, come può essere coniugato con l’arroganza che ne è l’opposto? In questo noi comunicatori sappiamo fare miracoli. 7. America. Gli americani sono fighissimi. Fanno cose fighissime. E anche quando non sono tali le raccontano in modo fighissimo. Ma “simm’ nati in Italy”. E questo fatto apre una schiera pressoché infinita di sottopeccati. Vanno dal mettere la desinenza “ing” ogni tre parole all’italianizzare ossessivamente i vocaboli inglesi (briffare, speechare ecc. ecc.). Dallo strutturare la milionesima metodologia in 10 passi (i primi a farlo, si sappia, sono stati gli alcolisti anonimi) a fare proprie tutte quelle sciocchezze del multitasking, always connected, 24/7 e chi più ne ha, per favore, provi a toglierne un po’. O perlomeno vada a New York per essere sicuro di aver capito bene cosa significhino. Di questo peccato, lo ammetto, mi sono macchiato anche io. Spesso e volentieri. Mi fermo qui. Forse qualcuno si chiederà perché sono io a confessarmi al posto di mio cugino, mentre lui probabilmente è ancora diabolicamente perseverante nel peccato. E’ semplice. La comunicazione è un meccanismo perverso, pettegolo e malpensante. Ragion per cui, anche se i peccati li fa solo qualcuno, alla fine la colpa la pagano tutti. Io, per quanto mi riguarda, prometto, per quello che riesco, di “fuggire le occasioni prossime di peccato”. Ma se trovo qualcuno che mi paga bene…

lunedì 11 giugno 2012

FANCLUB

Aldilà delle previsioni sul futuro di Facebook (più plumbee del più funesto calendario Maya) resta un dato di fatto. Facebook ha cambiato il mondo. E se non ci sarà più, a parte qualche dispiacere per Mark Zuckerberg (che non è mio amico, neppure su Facebook e passa per non essere neanche un gran simpaticone) ci sarà qualcos’altro. La rivoluzione a volte prosegue anche senza gli eroi che l’hanno fomentata. Partendo sempre dal basso. Mi spiego meglio. Facebook, ma anche Twitter, Pinterest, Instagram e tutto il resto, sono chiaramente dei contenitori. E’ l’utente che mette la sostanza. Ma mentre le persone, normalmente, mettono la loro autenticità, il loro quotidiano e il loro sistema di valori; le aziende (che sono comunque aggregati di persone) riempiono il contenitore di volantini pubblicitari. Nel mio condominio per questo genere di strumenti c’è una cassettina apposita, svuotabile dal fondo, dove vengono raccolti tutti i volantini destinati agli inquilini e, una volta alla settimana, viene direttamente svuotata nel cassonetto della carta. Questo significa che i volantini sono stati formalmente consegnati. Ma di fatto non sono arrivati a nessuno. Le aziende, soprattutto quelle grandi, utilizzano Facebook alla stessa maniera. Anzi hanno l’arroganza di percepirsi come “Grandi Fratelli”, pensando che ogni messaggio lanciato generi una standing ovation. Per il solo fatto di esserci. O per avere migliaia di cosiddetti “fans” che, magari sull’onda di un buono sconto, hanno cliccato sul fatidico pulsante blu. E’ ora di aprire gli occhi. E di andare sul concreto. Parliamo di una multinazionale. Una di quelle davvero molto, molto grandi e a stelle e strisce. Su Facebook ha una pagina. Ha oltre 515.000 cosiddetti “fans”. Pubblica post ad ogni ora del giorno e della notte. Sulle meraviglie della margarina. Sul nuovo packaging del detersivo. Sul fatto che nella giornata mondiale dell’ambiente è opportuno fare gesti concreti. Ogni post ottiene in media un “mi piace”. Da parte Della signora Fanny che evidentemente ha il marito che lavora li. Altri rimangono sospesi in un vuoto silenzioso. Qualcuno ottiene un commento. Spesso negativo e spesso a tinte forti. Che rimane sospeso. O a cui l’azienda risponde che per questo genere di tematiche è opportuno utilizzare i contatti del servizio clienti. Sempre che il post cosiddetto “sgradito” non venga eliminato per una soluzione radicale del problema. Sorge qualche dubbio. In primo luogo sul significato da attribuire alla parola “fan”, originariamente abbreviazione di “fanatic” e che riporta alla mente le folle che si strappano i capelli di fronte a ogni apparizione di Mick Jagger o Madonna. L’azienda in questione ha una fama sicuramente pari a quella di questi personaggi, ma i suoi 514.999 fan, e quindi eccezion fatta per la signora Fanny (nomen omen), sono ben poco fanatici. Anzi, diciamo che lanciano un messaggio ben preciso. E’ “nonmenefreganiente” (ma l’apposito pulsante blu su facebook non è ancora disponibile). In Italia, al contrario, c’è un’altra azienda. Piccola. Produce macchinari industriali. Ha una pagina Facebook gestita direttamente dalla figlia del proprietario. E di “fan” ne ha poco più di 800. Più o meno lo stesso numero dei cosiddetti “amici” dei profili personali. Nonostante tutto, ogni singolo post e ogni singola immagine viene commentata, attiva un dialogo a cui l’azienda risponde tempestivamente, apertamente ed esaustivamente. Certo non sono grandi numeri. Raramente raggiungono i 20. Ma d’altra parte stiamo parlando di macchinari per il packaging, non delle scarpe di Sex and the City. Probabilmente gran parte dei commenti o “mipiace” provengono dai dipendenti dell’azienda stessa. Ma questa volta il messaggio, ricevuto e acoltato è “si, m’interessa”. La differenza? Semplicissima. L’azienda in questione si limita a raccontare se stessa, il suo quotidiano, la sua realtà “vera”. Probabilmente nello stesso modo con cui la signorina che scrive i post racconta se stessa nella propria pagina personale. Certo, forse anche in questo caso parlare di “fan” è un po’ eccessivo (anche in considerazione degli argomenti trattati). Sono semplicemente persone che dialogano con altre persone. E giustificano il fatto prima ancora dei modelli di Harvard, che io – che anche se avrei tanto voluto non sono Mick Jagger – ottengo più consensi della corporation che ha dieci stadi pieni pronti ad ascoltare ogni singola parola pronunciata, ma pieni di gente con i tappi nelle orecchie. A quella corporation quindi vorrei rivolgere quindi la fatidica domanda di morettiana memoria riferita al presenzialismo. “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Suggerendo che è inutile perdere tempo ad andare se non si ha il coraggio di chiedere – cito lo stesso film – “ci possiamo vedere per innamorarci di me?”

domenica 27 maggio 2012

NON SONO UN COMPUTER (E SE LO FOSSI, ORA SAREI SCARICO)

La domenica sera è innegabilmente uno dei momenti più “tormentati” della settimana. Non fai niente ma nell’ozioso galleggiare fra un pensiero e l’altro, all’orizzonte non si possono ignorare le pesanti nubi del dovere farsi avanti. Di fatto arriveranno solo il lunedi mattina, e probabilmente saranno anche meno feroci di quanto annuncino all’apparenza. Di fatto sono però sufficientemente roboanti per rovinare gli ultimi momenti di pace in una domenica sera di tarda primavera. E quindi come bravi soldatini sul finire della libera uscita cominciamo a pensare “dovevo fare quello e non l’ho fatto”, “come farò a fare tutto, a farlo bene e a farlo in tempo” ma soprattutto “forse dovrei cominciare già ora”. Come se la domenica sera, un giorno in cui sembra anche Dio si sia riposato, sia invece più opportuno dedicarlo all’espiazione del peccato di qualche ora di dolce far niente. Che il nuovo Dio dei Multitasker proprio non tollera. Siamo in un’epoca in cui la lentezza non è concessa. Ma non come – più o meno negli anni ’90 – in cui se un onesto lavoratore si permetteva di uscire dall’ufficio alle 18 (come da contratto) veniva sarcasticamente salutato dai colleghi con la somanda “oggi fai mezza giornata?”. In quel caso il problema era puramente quantitativo. Ovvero l’importante era stare in ufficio fino alle 21. Non importa a fare cosa. Io, personalmente, avevo imparato un piccolo trucco per evadere da un cliente. E quindi verso le 18:30, riponevo i ferri del mestiere nella borsa e poi mi attaccavo al telefono cellulare fino all’uscita. Facendo così presagire ai colleghi che andavo si via, ma che stavo comunque lavorando, probabilmente stavo recandomi ad una cena di lavoro e comunque la mia giornata di lavoro (prima ancora del contratto) sarebbe stata a tempo indeterminato. Con buona pace di tutti. Ora invece è diverso. Da una parte ci sono ancora molte aziende che alzano l’artiglieria pesante se vedono un dipendente occupare parte della pausa pranzo sui social network o perdere qualche minuto per rispondere a un sms. Dall’altra non è concesso passare una sera senza controllare la propria mailbox o, peccato forse ancora più mortale, farsi un weekend senza portare con se un set di dispositivi elettronici e cavi di connessione di ogni tipo “casomaisuccedessequalcosa”. Mi piacerebbe poter dire che è un problema di organizzazione aziendale. Ma dato che questa frenesia del “tempo reale” di fatto ce la portiamo dietro anche nella vita reale, sospesa tra un tweet e un whatsapp, il problema è prima, fuori e oltre i cancelli delle aziende. E’ un problema culturale. Di fatto, il multitasking, è il nuovo imperativo. Il tutto e subito al posto del qui ed ora. Efficienza e produttività dal sapore vagamente “sacrificale” e “nobilitante”. Bene i discepoli del Multitasking sappiano, giusto per avere un territorio di riferimento, che di fatto il loro Dio è nato fra un chip e l’altro. La parola multitasking ha infatti origine riferita ai sistemi operativi dei computer. Oggetti alquanto privi di anima che sono in grado di eseguire più programmi contemporaneamente. Se ad esempio viene chiesto al sistema di eseguire contemporaneamente due processi A e B, il processore eseguirà per qualche istante il processo A, poi per qualche istante il processo B, poi tornerà ad eseguire il processo A e così via. Qualcuno deve aver pensato che se funziona su una macchina, a maggior ragione deve funzionare sul cervello umano. Pensava male. Perché, cari orgogliosi multitasker c’è una brutta notizia per voi. Siete affetti da una sindrome. Una ricerca della Stanford University che ha messo a confronto cento studenti, tra multi attivi e cosiddetti “tranquilli” ha portato al risultato che il cervello del multitasker lavora male, è disattento, ha difficoltà di concentrazione, problemi di memoria e non riesce a distinguere gli elementi rilevanti da quelli irrilevanti. C’è ben poco di cui vantarsi. E uscirne è tutt’altro che semplice. Ci ha provato lo scrittore e giornalista americano A.J. Jacobs, obbligando se stesso a vivere ogni ora di ogni giorno facendo una cosa alla volta. E quindi niente più colazioni frenetiche mentre si accende il computer o si controlla la mail, niente cena con la tv accesa, niente telefonate mentre si legge o si lavora. All’inizio ha rischiato di impazzire, perché sembrava tutto così innaturale. Poi ha rischiato di essere preso per pazzo dato che l’unico modo per fissare la concentrazione su una singola azione era dirla a se stesso (e chi parla da solo non fa mai una buona impressione). Alla fine ne è uscito, ed è stato meglio. Non ha smesso di essere un multitasker, ma ha imparato a tenere il problema “sotto controllo”. Anche l’autorevole Harvard Business Review si è occupata ultimamente dell’argomento giungendo più o meno alle medesime conclusioni. Soprattutto al lavoro, oltre il 50% delle persone manifesta segnali di stress all’ennesima potenza. Non solo per il numero di ore lavorate, ma per l’enorme quantità di compiti da gestire contemporaneamente. Senza fermarsi un attimo, senza confini. Ovunque andiamo le tecnologie ci seguono, invasive e persecutorie quanto irrinunciabili. E’ fin troppo chiaro, e non ci vuole Harvard, che il problema però non sono le tecnologie. Siamo noi, con le nostre smanie di onnipotenza e iperprestazione. Perdendo, ad esempio, la consapevolezza (anche abbastanza elementare) che, se incrementiamo il consumo di energia disponibile nel corso di un’ora, ne avremo ragionevolmente meno a disposizione per l’ora successiva. E l’idea che comunque alla fine la produttività sia incrementata è una mera illusione. Giusto per dare un ordine di grandezza, il multitasker impiega in media il 25% di tempo in più per portare a termine ogni operazione. Sempre che non vada in crisi nel frattempo. Anche la Harvard Business Review propone una ricetta per “controllare la sindrome del facciotuttosubito”. Più socialmente praticabile dell’esperimento di Jacobs. E quindi, nel caso dei manager, è essenziale seguire tre regole. Per quanto riguarda le riunioni mai superare i 45 minuti, restare concentrati e rispettare la puntualità. E poi bisogna evitare di chiedere o aspettarsi riscontri immediati in ogni momento della giornata forzando così le persone ad attivare comportamenti reattivi e a non riconoscere le priorità. Infine è importante che vengano rispettati i momenti di ricreazione (e mai termine fu tanto opportuno). Ma anche fuori dall’ufficio si può arginare la dipendenza da multitasking. Ad esempio facendo le cose più importanti al mattino, senza distrazioni (neanche la musica), in un lasso di tempo compreso fra i 60 e i 90 minuti e fissando un momento di chiusura come supporto per resistere a eventuali “tentazioni”. Poi è necessario stabilire agende che prevedano anche attività a lunga scadenza, che permettano il naturale sviluppo del pensiero strategico e creativo ma – soprattutto- che ci ricordino che non è tutto urgente. E infine bisogna fare in modo che le vacanze siano tali, e quindi un momento di reale “disconnessione” dal quotidiano e dai pensieri incombenti. Sembra facile e banale, certo. Come, per chi fuma, passare una giornata intera senza fumare. E senza neppure pensarci. Ma adesso, proprio perché è domenica sera, chiudo il computer e non ci penso. Mi rifugio in un passo appena letto all’interno di “Le nostre vite senza ieri” di Edoardo Nesi. Dice: “avrei dovuto dirgli tutto ciò che penso, al ragazzo coi capelli rasta. Dirgli che bisogna stare attenti a parlar male dello spreco, perché lo spreco è il linguaggio e l’uso della giovinezza, il figlio primogenito dell’impegno, la conseguenza necessaria dello spendersi senza sosta e senza costrutto alla ricerca d’un risultato futuro che potrebbe anche non venire mai, ma che di certo non verrà se non lo si insegue follemente e disperatamente. Avrei potuto dirgli che lo spreco è vita, pura vita, poiché è dallo spreco di ogni volontà e di ogni energia che alla fine nasce il progresso, non certo dal lesinare. Che è dallo spreco totale della vita di ogni artista che nascono i capolavori”.

venerdì 4 maggio 2012

THE WOW! SIGNAL

Possiamo dire quel che vogliamo, saremo pure schiavi di tutta questa tecnologia, iperconnessi, iperoccupati e iperstressati. Ma questo mondo, quello che scorre tra web e realtà, è decisamente entusiasmante. Innanzitutto, e scusate se è poco, perchè è in continua evoluzione laddove tutto il resto sembra sprofondato in una inquietante paralisi. Ma, soprattutto, perchè riporta la società ad una primitiva, perduta quanto preziosa, dimensione organismica. Tipica delle strutture sociali tribali, che non si concepiscono come "somma di individui" ma dove ogni individuo è un organo vitale per la sopravvivenza della tribù stessa. Ad esempio gli Zo'è, una piccola comunità tribale amazzonica, non concepiscono il conflitto. Per loro è un cancro. E per questo non appena i toni di una discussione cominciano ad alzarsi, i membri della comunità si mobilitano per solleticare i potenziali litiganti e arginare ogni antagonismo. Ma anche la condivisione è un atto spontaneo e dovuto. Per questo nel vocabolario degli Zo'è non esiste la parola "grazie". Noi chiaramente non siamo così. Non viviamo nudi e siamo in competizione non solo con una moltitudine di persone, ma spesso anche con noi stessi, Veniamo - forse - fuori da una cultura basata su un individualismo sfrenato travestito da meritocrazia. Che, è sotto gli occhi di tutti, ci ha portato un po' alla frutta. Sotto ogni profilo: sociale, culturale, politico ed economico. Più studio il fenomeno dei social media (e vi partecipo) più mi rendo infatti conto che probabilmente è la scintilla di una nuova era, quella di una "democrazia sociale". Non sto filosofeggiando (cosa che peraltro adoro fare). Sto parlando di fatti concreti. Alcuni decisamente eclatanti. Come la cosiddetta primavera araba. Altri che invece forse siamo già troppo occupati a viverli per raccontarli. Il denominatore comune è sicuramente il senso del "collettivo". Probabilmente è finito il tempo in cui i bambini venivano educati ad allenare la memoria (anche con metodi crudeli come imparare le poesie del Pascoli). Ma questi bambini, e non solo loro, oggi possono fare appello ad una sorta di "memoria collettiva e globale" impensabile fino ad ora. Ad esempio, mi è successo casualmente di udire le parole "Bauman" e "società liquida". Di cui non conoscevo assolutamente nulla. Probabilmente solo dieci anni fa, aldilà di un momentaneo arricchimento del mio vocabolario, non sarebbe successo nulla. Oggi in circa 90 secondi sono riuscito a sapere chi era Bauman e ad avere una prima, seppur sommaria, idea di che cosa si intende per "società liquida". Con un po' più di tempo a disposizione sono riuscito a farmi un'idea più circostanziata di questa teoria. Nei prossimi giorni probabilmente avrò l'opportunità di approfondire ulteriormente l'argomento. Sempre grazie a questa memoria collettiva "fuori da me" sono riuscito a dare un significato al "Wow! Signal" e pure a sentirlo (lascio a voi l'emozione di sperimentarne la scoperta e il suono). E se la "memoria collettiva" permette di poter raggiungere livelli di condivisione di informazioni inimmaginabili finora e di arginare quei cali neuronali a cui quelli che, come me, hanno superato i quarant'anni sono ineluttabilmente soggetti, l'"intelligenza collettiva" permette di mettere in comune competenze, creatività e innovazione. Liberandoci finalmente dal rigore di una matematica che si ostina ad affermare che 1+1=2. Oggi 1 più 1 fa almeno 5679. E quindi - l'ho appena finito di leggere su una rivista - se le banche non concedono mutui, l'intelligenza collettiva ti viene in soccorso con la Wikihouse e il social housing. Un'iniziativa nata dallo Studio00 di Londra (un collettivo di specialisti del low-carbon design e delle nuove forme comunitarie) che ha dato vita a un progetto "in progress" per la costruzione di una casa "low cost", a impatto zero, da assemblare in nove mosse come un mobile Ikea. Geniale l'idea, ma ancora più geniale è la sua natura in progress, diretta a creare una comunità di progettisti (potenzialmente infinita) che, scaricando un plug-in del progetto , sono invitati a modificarlo, manipolarlo e perfezionarlo. Di esempi del genere ce ne sono a migliaia. Anche meno eclatanti ovviamente. E da qui possiamo spostare l'attenzione su una nuova "coscienza collettiva", su una "opinione collettiva", su una "responsabiltà collettiva". Tutto porta comunque a un mondo nuovo. Un mondo che tenta di  migliorarsi attraverso una ricodificazione in chiave organismica del concetto di "partecipazione". E tutto subito fa pensare che il mondo che ancora pone resistenze a questo vento di cambiamento sia più vecchio di Jurassic Park. Destinato ad estinguersi nel deserto dei "ma tanto la bolla scoppia" e dei "tutto passerà e ritorneranno i vecchi paradigmi solidi e sicuri (sicuri???!!!)". Stiamo naturalmente parlando di persone, aziende e organizzazioni che hanno drammaticamente perso una parte importante della loro identità genetica. Quella sociale, forse naif, ma anche in quanto tale ideativa, sperimentale e innovativa. Persone, aziende e organizzazioni che anche di fronte a un "Wow!Signal" non si pongono neppure il semplice interrogativo di sapere, almeno, che cos'è.

lunedì 23 aprile 2012

TI PIACE BRAHMS?

Credo sia ormai evidente per tutti che fare un distinguo fra il virtuale e il cosiddetto "mondo reale" abbia da tempo perso ogni senso. E da tempo io preferisco parlare di "interrealtà", ovvero di una terra di mezzo, come definito da Giuseppe Riva, risultante dalla fusione di reti virtuali e di reti reali mediante lo scambio di informazioni tra di esse. Nell'interrealtà io posso modificare in modo consistente la mia esperienza e identità sociale.  Allo stesso tempo sono io a decidere se questa terra di mezzo è più vicina ai confini del reale o del virtuale. I social network, e così chiudiamo subito questa banalissima premessa, sono solo un mezzo. Sta a me decidere di usarli per andare su Marte o per scendere ancora di più sulla strada. Ecco, per una volta, parliamo di un'interrealtà vicina alla pavimentazione stradale. Si chiama "social network ambientale". Il presupposto è quello di tutti i social network, ovvero un'"intelligenza artificiale" che permette, in base a pochi dati immessi di recuperare memorie e persone perse, e di gestire efficacemente almeno tre dei sei gradi di separazione che vi sono fra Mario Rossi e la Regina Elisabetta. Questa volta permette a Mario, che si sta godendo un caffè in un bar del centro in compagnia di un buon libro di incontrare Helga che, casualmente si trova nello stesso bar e, altrettanto casualmente condivide gli stessi gusti letterari di Mario. Poi da cosa nasce cosa e da li in poi si aprono mille scenari possibili. In pratica si tratta di un'evoluzione di quelle applicazioni (da Foursquare in poi) di geolocalizzazione. Il passo avanti è che mentre Foursquare agevolava la coincidenza, ovvero permetteva di far incontrare due persone che già si conoscevano e che per caso si trovavano nello stesso posto, con questa nuova generazione di applicazioni si conoscono persone nuove. Basta impostare alcune brevi informazioni sullo smartphone, più o meno le stesse che servono per impostare un profilo sui tradizionali social network, e trovarsi al momento giusto nel posto giusto. Non solo, se a forza di leggere si è fatta l'ora dell'aperitivo e nel frattempo Mario ha condiviso con Helga la passione per gli scrittori cubani, l'applicazione suggerisce anche se c'è un posto nei dintorni dove è possibile proseguire la conoscenza davanti a un Mojito fatto a regola d'arte. Si chiamano Highlight, Glancee, Kismet e Banjo, sono tutte gratuite e facilitano la socialità. Quella vera e in carne ed ossa. Ovviamente questo fenomeno che, ai tempi di Facebook, è esploso praticamente nel momento stesso in cui è nato, ha posto subito alcuni dubbi, soprattutto per quanto riguarda il tema delicato della privacy. Temo che, ancora una volta, siamo di fronte a un falso problema. Risolto dal fatto che dal momento in cui decidiamo consapevolemente di mettere in piazza una parte più o meno estesa della nostra vita, siamo noi che decidiamo necessariamente di rinunciare ad una porzione più o meno estesa della nostra privacy. E francamente in un'epoca caratterizzata da solitudini cosmiche e anoressie esistenziali sembra che il gioco valga la candela.  E' peraltro assolutamente chiaro che queste applicazioni saranno nuove, ulteriori telecamere spia sui nostri spostamenti, sui nostri consumi e sui nostri stili di vita. Ma ne avevamo già altre. Tante e attive da molto tempo. Si chiamavano carte di credito, Google, Myspace ecc. E se comunque queste "intrusioni" favoriscono anche un cambio delle regole del marketing aziendale facendo in modo che io riceva più spesso proposte di prodotti e servizi in linea con il mio stile di vita ben vengano. Anzi, magari è la volta buona che i molti "nemici della cellulite" capiscano che il problema non mi riguarda/non mi interessa e riescano finalmente a dirigere meglio i loro massicci sforzi comunicativi. Con buona pace di tutti.

lunedì 16 aprile 2012

IL SEGRETO SOPRENDENTE DELL'ACQUA CALDA

Dopo che comunicatori, consulenti d'azienda, responsabili delle risorse umane (termine davvero orrendo per indicare i dipendenti), counselor, coach e chi più ne ha più ne metta si sono spaccati la schiena a spaccare il capello in quattro per vestire l'impresa con un abito di tollerabilità sociale, di fatto siamo da capo. Vuoi colpa della crisi, vuoi tutta una serie di resistenze al cambiamento che da sempre caratterizzano, ancora prima della fissa del posto fisso, la modalità di gestire le aziende; tutte le "carte dei valori", "codici etici" e altri altisonanti proclami corrono il rischio di finire nell'odioso calderone delle buone prediche che presagiscono opposti comportamenti. La ragione è molto semplice. Le aziende, quasi tutte, non sanno mettersi se non sporadicamente, in una autentica posizione di ascolto. E come in tutte le relazioni, molto semplicemente, se non si sa ascoltare non si può pretendere di essere ascoltati. Premettiamo che l'ascolto non è un artificio ne una patente. E' chiaramente un'attitudine da esercitare giorno dopo giorno. Cosa c'entra tutto ciò con i social network? Per il momento, purtroppo, poco. E rischia di essere l'ennesima occasione mancata. Lo dimostra un testo, per ora non pubblicato in Italia, di Bradley e McDonald (due vicepresident di Gartner), che si chiama "The Social Organization". Il testo illustra come un'impresa tradizionale (ovvero taylorista o, se si preferisce, 1.0) possa trasformarsi in una organizzazione social (quindi postfordista ovvero basata su una concezione evoluta di Management 2.0). Un testo che, da subito, pone l'accento su un aspetto fondamentale quanto semplice. Riportare l'azienda, grazie a strumenti come i social network a riappropriarsi del suo status di "organizzazione sociale", e in quanto tale di generare creazione di valore attraverso l'attivazione di una “mass collaboration" che collettivizza la capacità, le competenze, i talenti e la creatività di un grandissimo numero di persone sparse per il mondo. Naturalmente siamo nell'are delle scelte strategiche e, oserei dire, alquanto radicali. Nel senso che non si può essere "social" a metà (ad esempio solo per ciò che concerne le politiche di vendita). Ma cosa significa innanzitutto "mass collaboration"? In primo luogo sono fondamentali tre elementi. Il social media (come veicolo di creazione di cultura aziendale), le community (ovvero i gruppi di persone focalizzate al perseguimento di un obiettivo comune) e una value proposition (l'obiettivo attorno al quale le community trovano la ragione della propria esistenza). Per dirla in breve il social media è il luogo della collaborazione, la community  definisce chi collabora e la value proposition il perchè della collaborazione. Poi naturalmente ogni collaborazione ha le sue regole. Bradley e Mac Donalds ne definiscono sei. La prima è la partecipazione e quindi la mobilitazione della community. Già a questo livello viene fuori un concetto che a molti manager suciterebbe immediatamente risolini sarcastici. Perchè si, una community ha bisogno di un ambiente conviviale, regolato quindi non da un freddo scambio di informazioni funzionali ma da una libertà di espressione che permetta ad ogni sigolo componente di poter liberamente esprimere se stesso senza il timore di essere lapidariamente giudicato o, peggio ancora, lapidato (leggi licenziamento in tronco). La seconda coordinata  è il lavoro collettivo. Che significa sostituire il concetto di "contributo" alla semplice "richiesta di prestazione" e, naturalmente, valorizzarlo al massimo. La terza regola è la trasparenza. Ovvero la possibilità di ogni singolo individuo di vedere i contributi degli altri. Che a loro volta possono aumentarli, modificarli, criticarli e commentarli. E così facendo attrarre ulteriori contributi. La quarta regola è l'indipendenza, ovvero la possibilità per ogni singolo membro della community di poter fornire il proprio contributo in piena autonomia, dovunque si trovi e qualunque sia il proprio ruolo. La quinta regola è la perseveranza, ovvero la definizione del flusso delle informazioni (quali devono essere catturate, quanto devono "vivere" e ogni quando devono essere aggiornate). La sesta regola, infine, è l'importanza della base, partendo dal principio (che peraltro è anche una risultanza delle precedenti coordinate) che una reale e autentica collaborazione di massa non può essere controllata dall'alto.
Direi che per molte aziende (ma soprattutto, visto che le aziende sono aggregazioni umane, per molti manager) già la metabolizzazione di questi sei parametri darebbe origine ad una svolta quasi epocale.
Ma una volta messo a punto il sistema è importante capire come farlo funzionare. E per il momento credo sia sufficiente ribadire il meccanismo ciclico di funzionamento delle comunità  attraverso lo schema contributo- feedback-valutazione e cambiamento.
Onestamente tutto quanto detto finora sembra banale e semplice. Quasi come la carta dei valori. Ma allora perchè realtà di primo piano (e parliamo non di fruttivendoli, ma di colossi planetari come McDonald's) sui social network e quindi sulla costruzione del loro "essere organizzazioni sociali " si incastrano? Secondo gli autori, e condivido pienamente, perchè ci si focalizza sull'aspetto tecnologico. Questo è un primo errore fatale quanto globale e madornale. Come se per usare un personal computer fosse necessario imparare prima i linguaggi di programmazione. In secondo luogo perchè i principi della collaborazione di massa non fanno, di fatto, parte del vocabolario aziendale. Poi perchè si utilizzano i social media per far passare tematiche che non richiedono una "mass collaboration": basta guardare molte delle pagine aziendali presenti su facebook per rendersi conto che, nella quasi totalità, non propongono iniziative in grado di attivare una reale interazione. Fosse anche un semplice commento. E da questo fatto discende immediatamente l'incapacità di proporre contenuti veramente coinvolgenti che fertilizzino il potenziale creativo delle community. Come fare quindi? Gli autori, da buoni americani, propongono un percorso in cinque  passi (è una loro fissa, che vale dagli alcolisti anonimi in poi). Il primo passo è lo sviluppo di una visione manageriale attraverso l'analisi di funzioni e  processi aziendali per capire quando è utile la collaborazione di massa e dove è utile (analizzando ad esempio se già sono presenti forme di collaborazione spontanee, come funzionano ecc...), l'esplicitazione degli obiettivi aziendali e le modalità attraverso cui ci si aspetta che le community producano i loro contributi.       
Poi serve, come sempre, la strategia. Una vera però.  E quindi selezionare tra le infinite community possibili quelle che davvero sono rilevanti per l'azienda e che è in grado di sostenere, determinare l'"investimento" materiale e immateriale destinato alle community e, infine, rendere chiaramente espliciti i criteri di selezione adottati. Il terzo passo è la focalizzazione della proposta valoriale, e cioè rendere chiara la ragione per cui le persone dovrebbero collaborare, ma soprattutto perchè dovrebbero continuare a collaborare. Tenendo il principio che se le community sono costantemente "in movimento", altrettanto lo deve essere la proposta valoriale. E quindi basta con gli editti scolpiti nella pietra e cominciamo a pensare in termini di mappe dinamiche ed evolutive. Il quarto passo è il lancio. Ovvero la definizione dell'esperienza di collaborazione che ci si attende, il piano di azione per il coinvolgimento dei membri della community e la messa a punto di un ambiente di collaborazione (che - attenzione - non va confuso con il canale ma è più assimilabile ad un sistema integrato e complementare di canali). In seguito è necessario guidare la community, e questo è decisamente il punto più delicato. Perchè qualsiasi manager sicuramente guarda con terrore al fatto che una volta che una community è stata lanciata e magari funziona pure bene, vive di vita propria. In questo caso è essenziale l'esercizio della "perdita del controllo pur mantenendo la guida". Non valgono più le autorità di ruolo (di autentica autorevolezza al contrario c'è sempre un gran bisogno). Serve "il managing by guiding from the middle". Passare da una logica prescrittiva ad una di attivazione della capacità comunicativa  e creativa.  L'ultimo passo infine è l'adattamento all'organizzazione. Laddove infatti una community, una volta lanciata, diventa "viva" e in "crescita", è altrettanto vero che per crescere deve essere nutrita, e per essere nutrita non deve diventare qualcosa di esterno all'organizzazione formale dell'azienda .
Ancora una volta siamo di fronte ad un percorso semplice e condivisibile non necessariamente sulla base di un dottorato ad Harvard (che anzi forse potrebbe essere disfunzionale). Eppure c'è bisogno di un libro. C'è bisogno di spiegare perchè, di fatto, niente si muove. Ancora una volta gli autori di "The Social Organization" ci vengono incontro. Anche con affermazioni molto dure (e che in quanto tali condivido pienamente). Ci dicono infatti che la cultura aziendale è folle, e non nel senso di Steve Jobs. I manager infatti continuano a pensare che i social media siano una "moda passeggera", una forma di intrattenimento per giovani nullafacenti, comunque qualcosa che è distante mille miglia dal business, salvo poi entrare in piena contraddizione con questo assunto con una presenza inadeguata su questi canali. In secondo luogo per molti i social media rapopresentano una minaccia alla produttività, sia in quanto luogo di "cazzeggio", sia in quanto potenziale e pericolosissimo veicolo di informazioni confidenziali. Poi, anche se nessuno sarebbe disposto a dichiararlo, essere "social" significa prendersi precise responsabilità valoriali e risponderne in prima persona. E' chiaro che la carta dei valori appesa negli uffici e "chi s'è visto s'è visto" appare una scorciatoia meno impegnativa. Sicuramente concetti quali co-creazione di valore o learning community richiedono un impegno di ben diversa portata. E qualcuno potrebbe obiettare che un modello come questo potrebbe di fatto condurre ad organizzazioni anarchiche o ingovernabili. Al contrario, la richiesta che emerge evidente è piutoosto un radicale cambiamento nella leadership, che come accennato prima, dall'alto si sposta verso il centro. Parliamo quindi di una leadreship capace di convocare e attivare. Ma anche anche di una leadership capace di catalizzare e sintetizzare. Una leadership spogliata di ogni autoreferenziatiltà. Il problema, secondo Bradley e McDonald, non è la quantità di management necessaria, ma la modalità di management. E i manager se da una parte mantengono la responsabilità sul risultato finale e devono comunque esercitare una guida che eviti fenomeni di frammentazione, allo stesso tempo devono essere partecipativi e quindi fare proprio il compito di rimuovere gli ostacoli alla collaborazione sostenendo la collettivizzazione di quanto la community produce. Devono poi fare in modo che lo sforzo sia coerente con la proposta valoriale definita ed essere disposti a ri-focalizzarla se in corso d'opera dovessero emergere nuove esigenze. Devono infine valorizzare la performace per fare in modo che quanto prodotto da ogni singola community diventi patrimonio collettivo e condiviso dell'intera organizzazione.
Credo che questa volta, siamo un attimo più in la rispetto alla solita metodica americana che propone cose di una banalità sconcertante ma dette benissimo. Perchè se di banalità si tratta cio che mi lascia perplesso semmai è che per arrivare a considerazioni tanto ovvie quanto estranee alle attuali politiche di management ci fosse bisogno di Facebook....  



   


mercoledì 11 aprile 2012

CELEBRITY SKIN

Fiorello esce da Twitter (che pare lo avesse a libro paga) ed entra insieme a Jovanotti su Faceskin (il muovo maipiùsenza network creato dall'inossidabile Claudio Cecchetto). Michelle Hunziker annuncia che farà lo stesso, per timore di cadere nella dipendenza. Un timore reale e tangibile, s'intende: credo che chiunque di noi ha, almeno una volta, passato una indimenticabile serata con un amico che alla conversazione aveva sostituito un continuo e compulsivo ticchettio sulla tastiera dello smartphone. E' vero, la dipendenza da social network è un problema serio. Come quella da gioco d'azzardo, da alcool o da sostanze stupefacenti. Quello che però lascia stupefatti è che ancora una volta la smania di sensazionalismo prende il sopravvento su un'osservazione più circostanziata del fenomeno. Mi spiego meglio. Sicuramente se non esistesse l'eroina non ci sarebbero gli eroinomani. Che probabilmente sarebbero cocainomani. E se non esistesse la cocaina sarebbero alcolisti o incalliti masturbatori. E resto un po' di sasso nel realizzare che, nel 2012 si fa ancora fatica a guardare in faccia certi problemi. Non riconoscendo ad esempio (e finalmente) che le dipendenze, sia quelle da sostante, sia quelle comportamentali, nascono prima nell'individuo. Successivamente vengono agite sul mezzo. Poi certo, il mezzo conta. Sono assolutamente d'accordo sul fatto che Twitter, ad esempio, con la sua logica di botta e risposta a ritmo sostenuto e il meccanismo del following (e cioè dell'acquisizione di persone disponibili ad essere osservatori attivi della nostra vita) faciliti, più di altri canali, una certa compulsività. A cui però uno cede in base ad una precisa scelta personale. Non c'è nessun "eddai eddai", come da che mondo è mondo non ho mai visto nessuno in discoteca mettermi la droga di nascosto nel bicchiere (con quello che costa...). Peraltro alle "celebrities" e con particolare riferimento a Twitter vorrei chiedere: scusate ma non è esattamente su questo meccanismo che campate da sempre? Peraltro non dovreste avere la vita più facile ora che, finalmente, potete essere i "paparazzi" di voi stessi? Che cosa c'è di tanto eroico nel decidere di autoesiliarvi da Twitter? Trovereste altrettanto eroico, giusto per far quadrare i conti, privarvi della lavatrice? O siamo ancora ad insistere con la panzana della "fatica di essere star"? Beh anche fare parte dello star-system e, scusate la volgarità, guadagnare milioni di Euro non è una scelta obbligata. Poi però a pensarci ancora meglio, a dare fastidio, non è tanto l'anticonformismo a tutti i costi (ormai più obsoleto del conformismo), quanto il vestire un'azione così banale (come cancellare il proprio profilo da Twitter) di "morale esemplare". La signora Hunziker (si, ancora lei) ci tiene a precisare che permette alla propria figlia "solo un'ora di Facebook al giorno". Ognuno educa i propri figli come meglio crede e probabilmente come meglio può. Però aldilà del fatto che nel 2012 l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un neomoralismo da web, anche se fosse, gli ultimi da cui ci aspettiamo lezioni in tal senso sono proprio le celebrities. In primo luogo perchè non sono credibili. Infine perchè, dovrebbero averlo capito. Sono amate proprio perchè eccessive, scandalose e insofferenti a ogni regola morale. Da sempre fanno ciò che i comuni mortali possono solo immaginare. Poi certo, essere figli di una star non deve essere facile. Ma non tanto perchè mamma rompe le scatole su Facebook e Twitter. Più che altro per dover subire l'imbarazzo degli amici così maliziosi e pecorecci nel commentare il suo culo costantemente esposto ovunque. Facebook e Twitter compresi.
FUQ (FREQUENTLY UNANSWERED QUESTIONS)
Facebook acquista Instagram. Aldilà della ormai decisa virata dei social network verso un linguaggio sembre meno verbale e più visivo, fino a qualche anno fa se uno usava ancora la cara vecchia pellicola era subito tacciato come "brontosauro" dato che il mondo ormai si misurava in pixel e megapixel. Oggi rincorriamo un'applicazione che ci rende tutti polaroidi anni'60, nauseandoci di foto tanto stilose quanto omologate in una fissità cromatica sbiadita e vintage. Non solo. La polaroid, andata gloriosamente in pensione pochi anni fa, ora costa un miliardo. Dobbiamo attenderci a breve la resurrezione di PacMan?
Tor, tor, tor!. Oggi Repubblica dedica ben due pagine al lato "oscuro" di Internet. E' una rete parallela e anonima dove si trova "Silk Road", il sito che non esiste dove si può comprare droga, sesso diciamo non proprio ordinario e legale, documenti falsi e armi. Naturalmente per accedervi bisogna installare Tor, un software gratuito che rende invisibili. E poi bisogna seguire una procedura clandestina ma spiegata passo dopo passo all'interno del dossier del quotidiano. I pochi dettagli mancanti si possono reperire, sempre nella massima clandestinità su wikipedia e su youtube c'è pure un clandestinissimo video tutorial. Siamo di fronte a una nuova frontiera del marketing?

mercoledì 4 aprile 2012

FOR THE LOVE OF THE BIG BROTHER

Diamo per scontato che negli ultimi 15 anni il mondo ha registrato un cambiamento forse maggiore rispetto agli ultimi 150 anni. George Orwell nel 1948 scriveva 1984 (traendo il titolo dall'inversione delle ultime due cifre dell'anno della stesura). Sorvolando tutti gli apetti metaforici relativi all'alllora recente esperienza del nazismo, quel libro profetizzava una società in cui ogni secondo della vita di ogni singola persona veniva monitorata e controllata attraverso sofisticatissimi modelli di intersezione sociale governati da un'entità iconica quanto misteriosa chiamata Grande Fratello. Nel mondo di Orwell le persone comunicavano tra di loro attraverso la Neolingua. E la Neolingua era distinta da quasi tutte le altre lingue dal fatto che il suo vocabolario diventava ogni giorno più sottile invece di diventare più spesso. Probabilmente per i lettori del libro negli anni '50, ma anche per quelli che, come me, lo hanno scoperto in parallelo con l'uscita dell'omonimo film di Michael Radford (nel 1984), quel futuro così iperbolico era semplicemente frutto di un genio narrativo allucinato. Materia onirica. Profezia plausibile quanto l'invasione dgli ultracorpi. E nel 1984 in effetti era ancora così. Non avevamo neppure CD e cellulari, figuriamoci se potevamo pensare a strumenti che permettessero anche solo di comunicare guardandoci in faccia e dai quattro angoli del pianeta. Bastava solo aspettare. Neppure tanto. Circa 13 anni. Nel 1997 infatti eravamo già tutti muniti di cellulare, di personal computer e di webcam che ci permettevano, su larga scala, di rivoluzionare il nostro mondo delle relazioni sociali. Nel 1997 nasceva Six Degrees (il primo social network per come lo intendiamo oggi). Sempre nel 1997 la televisione italiana mandava in onda il primo reality show (si chiamava Milano-Roma e metteva due personaggi noti in auto registrando le loro conversazioni mentre attraversavano l'Italia). Tre anni più tardi la normalità delle persone diventava spettacolo in tv ogni giorno, 24 ore su 24, attraverso la nascita, fra mille polemiche velocemente metabolizzate, di "Grande Fratello". Non solo. Molti di noi facevano il percorso contrario creando il proprio personale reality show attraverso le videochat o poco più tardi caricando i propri video su Youtube. E sia in un verso, sia nell'altro, ognuno di noi si è guadagnato una identità di personaggio pubblico dove ci sta dentro di tutto: dal lavoro alla cucina, dal tempo libero al sesso. Rispetto a quanto descritto da Orwell la differenza è sicuramente un mondo meno cupo e un Grande Fratello che è molto più silenzioso e che, per il momento, si limita a monitorare i nostri consumi per operazioni di marketing. O ad arginare (abbastanza male) eventuali comportamenti illegali. Per il resto c'è tutto, il suo contrario e anche quello che sta fra i due opposti. Compresa la Neolingua. Parliamo moltissimo, parliamo di tutto e lo facciamo molto più velocemente. E tra un k un X, un lol e un roftl, una emoticon e lo sdoganamento definitivo del turpiloquio, il vocabolario si sta rapidamente assottigliando. Causa ed effetto dell'evoluzione dei contesti a cui il Grande Fratello (il Dio di Facebook e dei Passerotti) ha dato una brusca accelerata. Ci si dà tutti del tu, indipendentemente da classe sociale, età o gerarchie. Probabilmente l'Accademia della Crusca rispetto a questo impoverimento della lingua sta manifestando evidenti segni di malessere, e lo vede come un sostanziale sintomo di degrado sociale. Io onestamente non sono d'accordo. Mi preoccupa, se vogliamo, molto di più l'italianizzazione dell'inglese per cui ora tutti implementiamo, briffiamo o daunlodiamo. Ma anche in questo caso trovo molto più conveniente adattarmi all'evoluzione piuttosto che correre il rischio di trovarmi in men che non si dica ai margini della società. E onestamente se questo è il prezzo per poter comunicare meglio e di più con i miei amici come con Obama o Madonna, credo che il gioco valga la candela. Ciò che preoccupa (è una mia caratteristica cercare di vedere sempre il lato oscuro della luna) è altro. Mi riferisco alla perdita del "senso di confine" e prima ancora della consapevolezza dell'esistenza dei confini. Mi spiego meglio. Una volta le persone tornavano dal lavoro, chiudevano la porta di casa e tutto quello che succedeva da li in poi era un fatto esclusivamente privato e inaccessibile. Oggi le persone tornano dal lavoro, chiudono la porta di casa e potenzialmente trovano una folla nel salotto. Disponibile e morbosamente curiosa di conoscere ogni aspetto della loro vita de-privata. Una folla che tramite il proprio consenso o dissenso può giudicare e forse modificare o manipolare. Vale per aspetti quali l'opportunità della depilazione intima o le abitudini alimentari. Vale anche per le opinioni politiche, le propensioni culturali e il sistema di valori in generale. Conosco persone che tengono costantemente una o più webcam attivate in casa in modo da essere costantemente osservate in ogni singolo momento della giornata. So di un fenomeno chiamato hikikomori (letteralmente mi ritiro) che porta i ragazzi a escludere qualsiasi relazione con il mondo che non sia mediata da un pc: quasi una paradossale clausura all'interno di uno stadio traboccante di persone. Ma anche senza arrivare a questi estremi, i più arrivano a casa, si piazzano davanti alla tv per guardare la vita banale e nullafacente dei ragazzi del Grande Fratello o dei finti famosi su un'isola tropicale, e, una volta finita la trasmissione, accendono la webcam del proprio pc dando così vita al proprio personalissimo Grande Fratello Home Edition. Per quanto mi riguarda io lo faccio anche un po' di più rispetto alla media italiana non essendo interessato ai reality show. Giusto? Sbagliato? Sano? Patologico? Non saprei. Da una parte continuo a ripetermi che se il mondo sta cambiando possiamo filosofeggiarci intorno quanto vogliamo ma lui cambia lo stesso. Dall'altra, se mi fermo a guardare con un minimo di distanza la mia faccia statica, pallida e bluastra (anche il 15 di agosto) riprodotta da milioni di pixel sullo schermo del mio PC, sento un leggero brivido d'inquietudine correre lungo la schiena. Mi chiedo se non hanno ragione certe tribu che non si fanno fotografare perchè sono convinti che la fotografia rubi l'anima. Mi rispondo che se anche avessero ragione, nel mio caso è già tardi. E vado a dormire sperando che me ne sia rimasta a sufficienza per il prossimo show.

lunedì 26 marzo 2012

HARD TOUCH

Io non sono un teledipendente, soprattutto da quando la televisione ha cominciato a farsi specchio di una realtà banale e quotidiana che proprio perchè la vivo in prima persona non trovo nè più nobile e tantomeno divertente solo perchè ripresa da una telecamera. Però mi piacciono i serial. Quelli americani. Quelli che raccontano storie improbabili e in quanto tali divertenti. Come Touch. Parla di un bambino autistico. Parla dei legami invisibili che da sempre legano e incrociano vite e destini di ogni singola persona in tutto il mondo. Parla di come questo bambino attraverso questo distacco dalla realtà "di superficie" e al tempo stesso attraverso un tuffo nella realtà più profonda riesca a leggere passato, presente e futuro. Per il momento si ostina a salire sui tralicci e da li compiere misteriosi calcoli che sfuggono alla comprensione degli adulti. Di lui si sa solo che, in tutta la vita, non ha mai detto una parola e ovviamente non è dato sapere come andrà a finire. Detto questo, non sono qui per improvvisarmi critico televisivo. Di Touch uso la metafora. Trovo che il meccanismo dell'iperconnessione sia molto affascinante. Posso fare sapere a tutti chi sono, dove sono e che cosa faccio. Con Facebook ho cominciato fotografando la mia realtà. E quello che era il diario dell'adolescenza con le foto incollate, i ritagli di giornale e tutto il resto è diventato oggetto di condivisione e di dialogo con i miei amici. Poi con Twitter ho imparato a sintetizzare il tutto in istantenee di 140 caratteri. Lancio messaggi in bottiglia a una comunità ad assetto variabile che mi segue, mi commenta o mi critica. Dato che la logica, un po' compulsiva, del botta e risposta mi costringe ad essere conciso (e nel mio caso è una tortura), i contenuti si alleggeriscono. Non posso stare troppo a pensare, perchè se lo faccio, la mia presenza sulla timeline si fa rarefatta e la potenza dei riflettori della mia visibilità diminuisce. Non solo. Nel frattempo devo anche star dietro a Foursquare per fare sapere in tempo reale ogni mio spostamento e localizzazione. E adesso anche a Pinterest. Ci sarebbero anche Google+, Ping, ecc. ma non li frequento. Non certo per snobismo intellettuale. Semplicemente perchè necessito di una minima frazione di tempo per mangiare, dormire e pagare le bollette. Riguardo a Pinterest vorrei subito uscire dalla discussione sul fatto che ce ne fosse realmente bisogno oppure no. Bastano i 17,8 milioni di utenti a giustificarne l'esistenza (coincidenza vuole che più o meno sia lo stesso numero degli spettatori di Touch). La differenza è la dinamica del mezzo. Perchè Pinterest è il muro rosa della cameretta di Barbie. Con foto appese, messaggini sui post-it. Scompare ogni forma di logica narrativa. Ci si rappresenta attraverso la fotografia della porta del frigorifero, tradizionalmente luogo di aggregazione disordinata e indecifrata di materiale comunicativo di vario genere (dalla lista della spesa alla foto di quell'indimenticabile weekend al mare, dalla bolletta da pagare all'adesivo della squadra del cuore). Un materiale che io, naturalmente sono in grado di collocare in spazi emotivi di cui riconosco i confini. Per gli altri è solo casino. E la perdita della narrazione corrisponde alla perdita di ogni potenziale comunicativo. In una progressiva infantilizzazione dei codici e dei linguaggi, che trova peraltro coerenza anche nella struttura grafica del canale stesso. La mia sensazione è che con Facebook ci siamo riappropriati del piacere di "raccontarci", di uno storytelling che, anche quando porta i confini nell'universo fantastico personale, ha una direzione. Quella di una comunità che, per quanto grande possa essere, corrisponde ad una rete sociale reale. La mia. Comunico a persone, che almeno potenzialmente, so che mi ascoltano. Posso seguire i miei miti, animare dibattiti, coltivare i miei interessi, supportare le cause in cui credo. E sono io a decidere la misura in cui desidero rendere pubblica e amplificare la mia identità sociale. Attraverso twitter invece cinguetto nell'aria. Il filo narrativo diventa etereo. Certo, ci sono le mie parole, ma sono meno indirizzate. Comunico ad altri "uccellini". Posso decidere di ascoltare i "cinguettii" di chi voglio ma non posso decidere a chi cinguettare. Anzi, spesso la regola del gioco è proprio quella di avere il maggior numero di "seguaci". E quindi scatta la corsa al consenso. Dico ciò che penso ma a patto che ciò che penso piaccia ai miei follower. Anche a rischio di perdere la mia autenticità, pur di non correre il rischio di perdere i follower. Un po' come succede per gli adolescenti, per i quali la propria identificazione passa giocoforza attraverso l'accettazione, l'appartenenza ad un gruppo e, all'interno di quel gruppo l'acquisizione di una posizione gerarchica rilevante. E quindi devo fare in modo che la mia presenza sia massiccia (perchè se vado via qualcuno prende il mio posto) e in piena confluenza con le regole del gruppo stesso. Se poi sono sufficientemente abile posso arrivare ad essere io a fissare le regole. Comunque la misura me la dà, sempre e comunque, l'occhio altrui. Ma se questo gruppo assume dimensioni sconfinate e non controllabili - come accade su twitter - è un gran casino. E quindi non ho scelta. Devo stare in superficie, mettermi in gioco solo e quel poco che basta ad alimentare la mia "popolarità". Seguire il "mainstream". Battuta su battuta. Senza la possibilità di starci a pensare su più di tanto. E quando non riesco a trovare le parole, cito quelle degli altri. Difficile trovare dissenso sui versi di Alda Merini o sull'ultima canzone di Tiziano Ferro. Con Pinterest entro in un grado di regressione ancora più profonda. Divento un bambino che rovescia al centro del salotto la scatola dei giocattoli. E il gesto è tutto. Pregnante certo. Magari il mio intento è semplicemente quello di attirare l'attenzione per dire che ho fame. Ma probabilmente i più intenderanno soltanto una voglia di giocare o un gesto istintivo di protagonismo fine a se stesso. Si sa come sono i bambini...Fanno fatica ad allineare il gesto all'intenzione comunicativa. Seguono il codice dell'istinto, ma non sono in grado di capire se quel codice sarà condiviso. Perchè questo è questione di apprendimento. La differenza però e non da poco, è che i bambini pian piano imparano a far corrispondere codici di comunicazione alle loro azioni in modo da essere capiti e trovare risposta ai loro bisogni. Seguendo il naturale e progressivo processo di apprendimento che, a forza di prova e riprova, li porti ad entrare in una relazione efficace e soddisfacente con il mondo. Fino a trovare il "loro posto nel mondo". Alcuni invece, continueranno a rovesciare la scatola dei giocattoli. Poi, frustrati dalla mancata comprensione degli adulti, entreranno direttamente nella scatola dei giocattoli. E li troveranno un mondo sconfinato, fatto su misura per loro, ma in cui rischieranno di condannarsi ad una profonda e autistica solitudine.

lunedì 19 marzo 2012

DEMOCRAZIA CINESE

Premetto che amo i social network. Sono un modo facile, comodo ed efficace per restare connesso con il mio mondo. Per dare e ricevere ai miei amici quella quotidianità che, distanze geografiche, impegni o - talvolta - pigrizia non mi permetterebbero di coltivare. Sui social network condivido le mie opinioni, una canzone, il mio impegno politico e sociale e molte altre cose. A volte - raramente - conosco pure nuove persone. Dico raramente perchè non sono uno che "vive" di social networking. Sono ancora, temo anche per questioni generazionali, tra quelli che poi le persone le vuole conoscere davvero. Nella vita reale, intendo. E quindi, non sono tra quelli che s'innamorano, si incontrano e si separano via twitter. Diciamo che dedico a questi mezzi una fetta del tempo libero. Sono una possibilità in più, a volte un gioco (vivaddio), a volte qualcosa di più serio, altre ancora qualcosa che sta nel mezzo. Naturalmente mi astengo da ogni giudizio su chi, per motivazioni varie, dà a questi mezzi un valore più importante di quanto faccia io. Sono fatti suoi. Detto questo, chi mi conosce sa quanto io ami leggere e, nella lettura, quanto ritenga stimolante la provocazione e la satira. Mi piacciono le sommosse in punta di penna e le persone che, come Michele Serra, le sanno magistralmente agitare. Qui arriviamo al fatto. Michele Serra, steso sulla sua amaca, ci racconta che, guardando la tv con un amico, osserva la maniera in cui quest'ultimo, quasi in diretta, commenta a ritmo serratissimo su Twitter ogni singola battuta del programma. Quasi creando un programma nel programma. Ma quello che più colpisce Michele non è tanto il meccanismo del botta e risposta in 140 caratteri, ma la veemenza e la violenza verbale dei messaggi. O bianco o nero. Pollice su o giu. Un continuo bungee jumping tra opposte drasticità. Per alcuni il conduttore è un genio, per altri un coglione totale. Nessun territorio intermedio. E Michele, con la spigolosità un po' surreale e iconoclasta che gli è propria conclude il pezzo dicendo "Se dovessi twittare il concetto direi: Twitter mi fa schifo. Fortuna che non twitto...". Si, è vero. Non ci va giu leggero (d'altra parte non lo fa mai e chi lo ama lo ama proprio per questo). Ma non è nè il primo, nè il solo ad essere diffidente rispetto al popolo cinguettante. Già un paio di mesi fa e, con un tono decisamente meno ironico, Massimo Gramellini dalle pagine della Stampa lamentava la sostanziale "perdita" di alcuni colleghi "curvi sul cellulare, con i pollici a forma di sogliola, per digitare ossessivamente dieci, cento, mille tweet". Per quanto mi riguarda, mi è successo spesso, di trovarmi a cena con amici completamente estraniati da ogni forma di conversazione e assorbiti da "nevrosi cinguettante". Una volta mi è capitato pure di sentirmi dire, nel vano tentativo di richiamare l'attenzione di un commensale passerotto "scusami, non me ne frega un cazzo di ciò che state dicendo". Per fortuna con la maturità riesco a gestire efficacemente la mia aggressività. Ma tornando a Michele, credo fosse chiara la provocazione del "se dovessi twittare direi twitter mi fa schifo" (che usa lo stesso linguaggio senza mezze misure degli aggressivissimi passerotti). Ma avrebbe potuto anche dire semplicemente "a me twitter fa schifo". D'altra parte un sacco di gente dice che "i giornali fanno schifo", che "la tv è spazzatura" ecc. ecc. Che è ben diverso dal dire "i giornalisti sono persone ignobili" o i "conduttori tv sono braccia rubate all'agricoltura". Nessuno comunque ha niente da obiettare. Ma quando si tocca Twitter è diverso. Il popolo dei passerotti da combattimento si leva in volo e in men che non si dica il malcapitato disallineato si trova letteralemente lapidato sulla pubblica piazza. "Generalizzare senza conoscere e dal pulpito è superficialità". "Michele Serra scrive pezzi da venti righe ma nessuno gli ha mai detto che sono troppo corti o superficiali anche quando lo sono". "Twitter logora chi non ce l'ha". E così via in un crescendo di veemenza. Un dato è chiaro. Su Twitter la dissidenza non è gradita. E chi dissente deve essere giustiziato "per direttissima" e senza possibilità d'appello. Io stesso, che ho provato timidamente a controbattere, semplicemente per capire meglio, sono stato messo davanti a un "o dentro, o fuori" e ho perso circa una decina di follower in pochi minuti. Pazienza. Per i follower persi, intendo. E mi rendo conto che si, forse Michele Serra ha sbagliato. Nel prendersela con il mezzo. Che non fa schifo, è semplicemente quello che è. Una scatola vuota. Il problema sono le cose che mettiamo nella scatola. Possono essere cazzate, "minima inutilia", notizie in tempo reale o stati d'animo fissati in istantanee destinate a durare giusto il tempo di un cinguettio. Questa volta il popolo twitterante ha scelto la fede cieca, il dogma, la "resistenza talebana" nel nome del Grande Passerotto. Paradossale perchè nasce proprio nel luogo della "democrazia della parola". Segno preoccupante del fatto che se "si lascia che la gente creda di governare sarà governata". Ma queste parole venivano da un quacchero del seicento. Si chiamava William Penn ed ha fondato la Pennsylvania. Ma forse aveva già in mente Twitter.