lunedì 26 marzo 2012

HARD TOUCH

Io non sono un teledipendente, soprattutto da quando la televisione ha cominciato a farsi specchio di una realtà banale e quotidiana che proprio perchè la vivo in prima persona non trovo nè più nobile e tantomeno divertente solo perchè ripresa da una telecamera. Però mi piacciono i serial. Quelli americani. Quelli che raccontano storie improbabili e in quanto tali divertenti. Come Touch. Parla di un bambino autistico. Parla dei legami invisibili che da sempre legano e incrociano vite e destini di ogni singola persona in tutto il mondo. Parla di come questo bambino attraverso questo distacco dalla realtà "di superficie" e al tempo stesso attraverso un tuffo nella realtà più profonda riesca a leggere passato, presente e futuro. Per il momento si ostina a salire sui tralicci e da li compiere misteriosi calcoli che sfuggono alla comprensione degli adulti. Di lui si sa solo che, in tutta la vita, non ha mai detto una parola e ovviamente non è dato sapere come andrà a finire. Detto questo, non sono qui per improvvisarmi critico televisivo. Di Touch uso la metafora. Trovo che il meccanismo dell'iperconnessione sia molto affascinante. Posso fare sapere a tutti chi sono, dove sono e che cosa faccio. Con Facebook ho cominciato fotografando la mia realtà. E quello che era il diario dell'adolescenza con le foto incollate, i ritagli di giornale e tutto il resto è diventato oggetto di condivisione e di dialogo con i miei amici. Poi con Twitter ho imparato a sintetizzare il tutto in istantenee di 140 caratteri. Lancio messaggi in bottiglia a una comunità ad assetto variabile che mi segue, mi commenta o mi critica. Dato che la logica, un po' compulsiva, del botta e risposta mi costringe ad essere conciso (e nel mio caso è una tortura), i contenuti si alleggeriscono. Non posso stare troppo a pensare, perchè se lo faccio, la mia presenza sulla timeline si fa rarefatta e la potenza dei riflettori della mia visibilità diminuisce. Non solo. Nel frattempo devo anche star dietro a Foursquare per fare sapere in tempo reale ogni mio spostamento e localizzazione. E adesso anche a Pinterest. Ci sarebbero anche Google+, Ping, ecc. ma non li frequento. Non certo per snobismo intellettuale. Semplicemente perchè necessito di una minima frazione di tempo per mangiare, dormire e pagare le bollette. Riguardo a Pinterest vorrei subito uscire dalla discussione sul fatto che ce ne fosse realmente bisogno oppure no. Bastano i 17,8 milioni di utenti a giustificarne l'esistenza (coincidenza vuole che più o meno sia lo stesso numero degli spettatori di Touch). La differenza è la dinamica del mezzo. Perchè Pinterest è il muro rosa della cameretta di Barbie. Con foto appese, messaggini sui post-it. Scompare ogni forma di logica narrativa. Ci si rappresenta attraverso la fotografia della porta del frigorifero, tradizionalmente luogo di aggregazione disordinata e indecifrata di materiale comunicativo di vario genere (dalla lista della spesa alla foto di quell'indimenticabile weekend al mare, dalla bolletta da pagare all'adesivo della squadra del cuore). Un materiale che io, naturalmente sono in grado di collocare in spazi emotivi di cui riconosco i confini. Per gli altri è solo casino. E la perdita della narrazione corrisponde alla perdita di ogni potenziale comunicativo. In una progressiva infantilizzazione dei codici e dei linguaggi, che trova peraltro coerenza anche nella struttura grafica del canale stesso. La mia sensazione è che con Facebook ci siamo riappropriati del piacere di "raccontarci", di uno storytelling che, anche quando porta i confini nell'universo fantastico personale, ha una direzione. Quella di una comunità che, per quanto grande possa essere, corrisponde ad una rete sociale reale. La mia. Comunico a persone, che almeno potenzialmente, so che mi ascoltano. Posso seguire i miei miti, animare dibattiti, coltivare i miei interessi, supportare le cause in cui credo. E sono io a decidere la misura in cui desidero rendere pubblica e amplificare la mia identità sociale. Attraverso twitter invece cinguetto nell'aria. Il filo narrativo diventa etereo. Certo, ci sono le mie parole, ma sono meno indirizzate. Comunico ad altri "uccellini". Posso decidere di ascoltare i "cinguettii" di chi voglio ma non posso decidere a chi cinguettare. Anzi, spesso la regola del gioco è proprio quella di avere il maggior numero di "seguaci". E quindi scatta la corsa al consenso. Dico ciò che penso ma a patto che ciò che penso piaccia ai miei follower. Anche a rischio di perdere la mia autenticità, pur di non correre il rischio di perdere i follower. Un po' come succede per gli adolescenti, per i quali la propria identificazione passa giocoforza attraverso l'accettazione, l'appartenenza ad un gruppo e, all'interno di quel gruppo l'acquisizione di una posizione gerarchica rilevante. E quindi devo fare in modo che la mia presenza sia massiccia (perchè se vado via qualcuno prende il mio posto) e in piena confluenza con le regole del gruppo stesso. Se poi sono sufficientemente abile posso arrivare ad essere io a fissare le regole. Comunque la misura me la dà, sempre e comunque, l'occhio altrui. Ma se questo gruppo assume dimensioni sconfinate e non controllabili - come accade su twitter - è un gran casino. E quindi non ho scelta. Devo stare in superficie, mettermi in gioco solo e quel poco che basta ad alimentare la mia "popolarità". Seguire il "mainstream". Battuta su battuta. Senza la possibilità di starci a pensare su più di tanto. E quando non riesco a trovare le parole, cito quelle degli altri. Difficile trovare dissenso sui versi di Alda Merini o sull'ultima canzone di Tiziano Ferro. Con Pinterest entro in un grado di regressione ancora più profonda. Divento un bambino che rovescia al centro del salotto la scatola dei giocattoli. E il gesto è tutto. Pregnante certo. Magari il mio intento è semplicemente quello di attirare l'attenzione per dire che ho fame. Ma probabilmente i più intenderanno soltanto una voglia di giocare o un gesto istintivo di protagonismo fine a se stesso. Si sa come sono i bambini...Fanno fatica ad allineare il gesto all'intenzione comunicativa. Seguono il codice dell'istinto, ma non sono in grado di capire se quel codice sarà condiviso. Perchè questo è questione di apprendimento. La differenza però e non da poco, è che i bambini pian piano imparano a far corrispondere codici di comunicazione alle loro azioni in modo da essere capiti e trovare risposta ai loro bisogni. Seguendo il naturale e progressivo processo di apprendimento che, a forza di prova e riprova, li porti ad entrare in una relazione efficace e soddisfacente con il mondo. Fino a trovare il "loro posto nel mondo". Alcuni invece, continueranno a rovesciare la scatola dei giocattoli. Poi, frustrati dalla mancata comprensione degli adulti, entreranno direttamente nella scatola dei giocattoli. E li troveranno un mondo sconfinato, fatto su misura per loro, ma in cui rischieranno di condannarsi ad una profonda e autistica solitudine.

lunedì 19 marzo 2012

DEMOCRAZIA CINESE

Premetto che amo i social network. Sono un modo facile, comodo ed efficace per restare connesso con il mio mondo. Per dare e ricevere ai miei amici quella quotidianità che, distanze geografiche, impegni o - talvolta - pigrizia non mi permetterebbero di coltivare. Sui social network condivido le mie opinioni, una canzone, il mio impegno politico e sociale e molte altre cose. A volte - raramente - conosco pure nuove persone. Dico raramente perchè non sono uno che "vive" di social networking. Sono ancora, temo anche per questioni generazionali, tra quelli che poi le persone le vuole conoscere davvero. Nella vita reale, intendo. E quindi, non sono tra quelli che s'innamorano, si incontrano e si separano via twitter. Diciamo che dedico a questi mezzi una fetta del tempo libero. Sono una possibilità in più, a volte un gioco (vivaddio), a volte qualcosa di più serio, altre ancora qualcosa che sta nel mezzo. Naturalmente mi astengo da ogni giudizio su chi, per motivazioni varie, dà a questi mezzi un valore più importante di quanto faccia io. Sono fatti suoi. Detto questo, chi mi conosce sa quanto io ami leggere e, nella lettura, quanto ritenga stimolante la provocazione e la satira. Mi piacciono le sommosse in punta di penna e le persone che, come Michele Serra, le sanno magistralmente agitare. Qui arriviamo al fatto. Michele Serra, steso sulla sua amaca, ci racconta che, guardando la tv con un amico, osserva la maniera in cui quest'ultimo, quasi in diretta, commenta a ritmo serratissimo su Twitter ogni singola battuta del programma. Quasi creando un programma nel programma. Ma quello che più colpisce Michele non è tanto il meccanismo del botta e risposta in 140 caratteri, ma la veemenza e la violenza verbale dei messaggi. O bianco o nero. Pollice su o giu. Un continuo bungee jumping tra opposte drasticità. Per alcuni il conduttore è un genio, per altri un coglione totale. Nessun territorio intermedio. E Michele, con la spigolosità un po' surreale e iconoclasta che gli è propria conclude il pezzo dicendo "Se dovessi twittare il concetto direi: Twitter mi fa schifo. Fortuna che non twitto...". Si, è vero. Non ci va giu leggero (d'altra parte non lo fa mai e chi lo ama lo ama proprio per questo). Ma non è nè il primo, nè il solo ad essere diffidente rispetto al popolo cinguettante. Già un paio di mesi fa e, con un tono decisamente meno ironico, Massimo Gramellini dalle pagine della Stampa lamentava la sostanziale "perdita" di alcuni colleghi "curvi sul cellulare, con i pollici a forma di sogliola, per digitare ossessivamente dieci, cento, mille tweet". Per quanto mi riguarda, mi è successo spesso, di trovarmi a cena con amici completamente estraniati da ogni forma di conversazione e assorbiti da "nevrosi cinguettante". Una volta mi è capitato pure di sentirmi dire, nel vano tentativo di richiamare l'attenzione di un commensale passerotto "scusami, non me ne frega un cazzo di ciò che state dicendo". Per fortuna con la maturità riesco a gestire efficacemente la mia aggressività. Ma tornando a Michele, credo fosse chiara la provocazione del "se dovessi twittare direi twitter mi fa schifo" (che usa lo stesso linguaggio senza mezze misure degli aggressivissimi passerotti). Ma avrebbe potuto anche dire semplicemente "a me twitter fa schifo". D'altra parte un sacco di gente dice che "i giornali fanno schifo", che "la tv è spazzatura" ecc. ecc. Che è ben diverso dal dire "i giornalisti sono persone ignobili" o i "conduttori tv sono braccia rubate all'agricoltura". Nessuno comunque ha niente da obiettare. Ma quando si tocca Twitter è diverso. Il popolo dei passerotti da combattimento si leva in volo e in men che non si dica il malcapitato disallineato si trova letteralemente lapidato sulla pubblica piazza. "Generalizzare senza conoscere e dal pulpito è superficialità". "Michele Serra scrive pezzi da venti righe ma nessuno gli ha mai detto che sono troppo corti o superficiali anche quando lo sono". "Twitter logora chi non ce l'ha". E così via in un crescendo di veemenza. Un dato è chiaro. Su Twitter la dissidenza non è gradita. E chi dissente deve essere giustiziato "per direttissima" e senza possibilità d'appello. Io stesso, che ho provato timidamente a controbattere, semplicemente per capire meglio, sono stato messo davanti a un "o dentro, o fuori" e ho perso circa una decina di follower in pochi minuti. Pazienza. Per i follower persi, intendo. E mi rendo conto che si, forse Michele Serra ha sbagliato. Nel prendersela con il mezzo. Che non fa schifo, è semplicemente quello che è. Una scatola vuota. Il problema sono le cose che mettiamo nella scatola. Possono essere cazzate, "minima inutilia", notizie in tempo reale o stati d'animo fissati in istantanee destinate a durare giusto il tempo di un cinguettio. Questa volta il popolo twitterante ha scelto la fede cieca, il dogma, la "resistenza talebana" nel nome del Grande Passerotto. Paradossale perchè nasce proprio nel luogo della "democrazia della parola". Segno preoccupante del fatto che se "si lascia che la gente creda di governare sarà governata". Ma queste parole venivano da un quacchero del seicento. Si chiamava William Penn ed ha fondato la Pennsylvania. Ma forse aveva già in mente Twitter.