lunedì 11 giugno 2012

FANCLUB

Aldilà delle previsioni sul futuro di Facebook (più plumbee del più funesto calendario Maya) resta un dato di fatto. Facebook ha cambiato il mondo. E se non ci sarà più, a parte qualche dispiacere per Mark Zuckerberg (che non è mio amico, neppure su Facebook e passa per non essere neanche un gran simpaticone) ci sarà qualcos’altro. La rivoluzione a volte prosegue anche senza gli eroi che l’hanno fomentata. Partendo sempre dal basso. Mi spiego meglio. Facebook, ma anche Twitter, Pinterest, Instagram e tutto il resto, sono chiaramente dei contenitori. E’ l’utente che mette la sostanza. Ma mentre le persone, normalmente, mettono la loro autenticità, il loro quotidiano e il loro sistema di valori; le aziende (che sono comunque aggregati di persone) riempiono il contenitore di volantini pubblicitari. Nel mio condominio per questo genere di strumenti c’è una cassettina apposita, svuotabile dal fondo, dove vengono raccolti tutti i volantini destinati agli inquilini e, una volta alla settimana, viene direttamente svuotata nel cassonetto della carta. Questo significa che i volantini sono stati formalmente consegnati. Ma di fatto non sono arrivati a nessuno. Le aziende, soprattutto quelle grandi, utilizzano Facebook alla stessa maniera. Anzi hanno l’arroganza di percepirsi come “Grandi Fratelli”, pensando che ogni messaggio lanciato generi una standing ovation. Per il solo fatto di esserci. O per avere migliaia di cosiddetti “fans” che, magari sull’onda di un buono sconto, hanno cliccato sul fatidico pulsante blu. E’ ora di aprire gli occhi. E di andare sul concreto. Parliamo di una multinazionale. Una di quelle davvero molto, molto grandi e a stelle e strisce. Su Facebook ha una pagina. Ha oltre 515.000 cosiddetti “fans”. Pubblica post ad ogni ora del giorno e della notte. Sulle meraviglie della margarina. Sul nuovo packaging del detersivo. Sul fatto che nella giornata mondiale dell’ambiente è opportuno fare gesti concreti. Ogni post ottiene in media un “mi piace”. Da parte Della signora Fanny che evidentemente ha il marito che lavora li. Altri rimangono sospesi in un vuoto silenzioso. Qualcuno ottiene un commento. Spesso negativo e spesso a tinte forti. Che rimane sospeso. O a cui l’azienda risponde che per questo genere di tematiche è opportuno utilizzare i contatti del servizio clienti. Sempre che il post cosiddetto “sgradito” non venga eliminato per una soluzione radicale del problema. Sorge qualche dubbio. In primo luogo sul significato da attribuire alla parola “fan”, originariamente abbreviazione di “fanatic” e che riporta alla mente le folle che si strappano i capelli di fronte a ogni apparizione di Mick Jagger o Madonna. L’azienda in questione ha una fama sicuramente pari a quella di questi personaggi, ma i suoi 514.999 fan, e quindi eccezion fatta per la signora Fanny (nomen omen), sono ben poco fanatici. Anzi, diciamo che lanciano un messaggio ben preciso. E’ “nonmenefreganiente” (ma l’apposito pulsante blu su facebook non è ancora disponibile). In Italia, al contrario, c’è un’altra azienda. Piccola. Produce macchinari industriali. Ha una pagina Facebook gestita direttamente dalla figlia del proprietario. E di “fan” ne ha poco più di 800. Più o meno lo stesso numero dei cosiddetti “amici” dei profili personali. Nonostante tutto, ogni singolo post e ogni singola immagine viene commentata, attiva un dialogo a cui l’azienda risponde tempestivamente, apertamente ed esaustivamente. Certo non sono grandi numeri. Raramente raggiungono i 20. Ma d’altra parte stiamo parlando di macchinari per il packaging, non delle scarpe di Sex and the City. Probabilmente gran parte dei commenti o “mipiace” provengono dai dipendenti dell’azienda stessa. Ma questa volta il messaggio, ricevuto e acoltato è “si, m’interessa”. La differenza? Semplicissima. L’azienda in questione si limita a raccontare se stessa, il suo quotidiano, la sua realtà “vera”. Probabilmente nello stesso modo con cui la signorina che scrive i post racconta se stessa nella propria pagina personale. Certo, forse anche in questo caso parlare di “fan” è un po’ eccessivo (anche in considerazione degli argomenti trattati). Sono semplicemente persone che dialogano con altre persone. E giustificano il fatto prima ancora dei modelli di Harvard, che io – che anche se avrei tanto voluto non sono Mick Jagger – ottengo più consensi della corporation che ha dieci stadi pieni pronti ad ascoltare ogni singola parola pronunciata, ma pieni di gente con i tappi nelle orecchie. A quella corporation quindi vorrei rivolgere quindi la fatidica domanda di morettiana memoria riferita al presenzialismo. “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Suggerendo che è inutile perdere tempo ad andare se non si ha il coraggio di chiedere – cito lo stesso film – “ci possiamo vedere per innamorarci di me?”

2 commenti:

  1. E' la bulimia da fan, la sindrome da auditel (e non per niente la grande azienda è un investitore colossale), è la sindrome fi onnipotenza che porta a parlare prima di ascoltare.
    Ma è un attimo passare dal fanclub al fanc...

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  2. ...ma in quel caso interviene la pronta censura. e chi ha detto cosa????

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