LA LETTERA APERTA DI GIANNA PACIELLO
(VICE PRESIDENTE DI AIDA PARTNERS OGILVY PR)
Dove abbiamo sbagliato? Perché qualcosa abbiamo sbagliato di sicuro, se dopo anni di battaglie per cancellare l’immagine di una categoria poco qualificata, poco professionale, improvvisata e salottiera, salvo qualche rara eccezione, non siamo riusciti a conquistarci un posto su quel podio, dove dovremmo essere di diritto. Perché ancora oggi, dopo 30 anni, le aziende comunicano le campagne pubblicitarie o quelle web e mostrano un rispetto reverenziale verso tutti gli operatori della comunicazione. Tutti, ma proprio tutti, tranne noi Rp .
Quante volte, voi colleghi, avete sentito un’azienda intervistata ringraziare la propria agenzia? Quante volte avete dovuto insistere per fare citare il vostro nome da un cliente, nonostante il progetto, il pensiero che ci stava dietro, il lavoro infinito per idearlo e confezionarlo, fosse tutto vostro?
Non sto dando la colpa alle aziende e non voglio darlo alla stampa. Abbiamo fatto tutto da soli. Cioè non abbiamo fatto niente!
Ognuno di noi ha cercato di lavorare con professionalità, qualità, dedizione. Così tanta, a volte per farci inconsciamente perdonare il nostro peccato originale, da diventare agli occhi dei clienti dei ‘fornitori’, non dei consulenti, una categoria di serie B, diciamocelo pure.
Difficile ora cambiare le cose e le prospettive. Prospettive tutte italiane, perché all’estero la categoria ha un ruolo di primo piano, riconosciuto da sempre, apprezzato e inneggiato. Ma si sa, noi italiani abbiamo il vizio di banalizzare il buono ed esaltare il peggio.
Non siamo riusciti neanche a creare un’associazione che ci proteggesse o, meglio ancora, che comunicasse (eppure dovrebbe essere il nostro mestiere) quello che sappiamo fare, giorno dopo giorno, anticipando da sempre i ‘segnali deboli’ che poi diventano i trend del mercato. Niente. Non abbiamo fatto niente neanche lì. Ci siamo dati delle regole che per primi non rispettiamo e ci siamo parlati addosso, dimenticandoci che era il mercato a dover capire a cosa serve il nostro lavoro. E così ora i nostri clienti pensano che fare relazioni pubbliche sia intrattenere solo i rapporti con la stampa. E a volte lo pensano anche le nuove leve che prendiamo in agenzia. Colpa delle scuole che sfornano migliaia di futuri comunicatori all’anno? No, è ancora e sempre colpa nostra, perché in quelle scuole insegniamo anche noi. Ho 51 anni, troppi per fare la paladina, ma pochi per smettere di sognare. E il sogno è che le nuove generazioni di comunicatori facciano qualcosa, tutti insieme, per dare valore al nostro lavoro. Io non mi tiro indietro e come me tanti altri, e non solo nella nostra agenzia.
Si accettano proposte”.
LA (MIA) RISPOSTA
La condivido, la lettera "coming out" di Gianna Paciello. Perché dopo un weekend di pensieri e ripensieri, tra il serio e il faceto, sull’opportunità di lasciare perdere questo mondo un po’ alla deriva, la domanda centrale continua a rimbombare. E anche se poi noi comunicatori decideremo di darci definitivamente alla vita monastica, al quesito della Gianna, “dove abbiamo sbagliato”, dobbiamo rispondere. Non certo per autocommiserazione ma perché per cambiare è importante partire da un consapevole e pieno riconoscimento del fondo in cui siamo caduti. Dal momento in cui “abbiamo sbagliato”, dato che quel momento tutti sappiamo qual è E’ il momento in cui abbiamo cominciato a mentire. Prima a noi stessi e poi a 360°. Poi certo, l’affabulazione dei pubblicitari e le conseguenti luci della ribalta a noi non sono mai state concesse. Ma non erano neanche previste dal nostro mestiere. Tutto giocato sul “crederci” più che sul persuadere. Sulla verità prima della suggestione. E noi a un certo punto non ci abbiamo più creduto. Pur continuando a fingere il contrario e per di più privi anche di quell’esperienza scenica e la credibilità, perlomeno emotiva, garantita ai nostri “cugini ricchi della pubblicità”. Andiamo nel concreto. Che cosa, a un certo punto, abbiamo raccontato ai nostri clienti? Promesse al limite dell’improbabile. Improbabili “metodologie proprietarie” arrivate fresche fresche dalla sede di New York. Progetti precotti che valgono dall’industria aerospaziale al tonno in scatola (alcuni di essi pure transitati di agenzia in agenzia seguendo le migrazioni dei singoli professionisti). Team operativi formati al 90% da giovani con tanta voglia di crescere e mandati in guerra con il colapasta in testa. Ma non solo. Parliamo pure dell’ufficio stampa, che da attività di relazione e accreditamento con i giornalisti (altra categoria oggi alquanto disastrata) è diventata promessa di pubblicazione su “commissione”. Su questa o quella testata a firma di questo o quel giornalista “che conosciamo benissimo”. Il risultato? Oggi i clienti mandano mail laconiche in cui chiedono direttamente di uscire su Repubblica, Corriere ed Espresso indicando la posizione in pagina. Il fatto che, eventualmente la notizia esista o meno passa in secondo piano perché “tanto è questione di contatti”. Ma non sono le aziende che non capiscono. Siamo noi che glielo abbiamo fatto credere, perché di fatto nell’ufficio stampa, quello vero, fatto seriamente e che è relazione costruttiva tra diverse professionalità, non ci abbiamo più creduto. Eppure questo mestiere per noi che lo facciamo da tempo una sua dignità ce l’aveva davvero. Era davvero l’arte del sogno “con la data di scadenza” (come diceva Claudio Maffei) che era quella in cui il sogno diventava vero. Non certo l’arte del “prendi i soldi e scappa”. Forse è proprio da qui che dobbiamo ripartire. Dal ricominciare a crederci. Per responsabilità verso noi stessi. Verso chi ci ha consegnato nelle mani una professione ben diversa da ciò che se ne è fatto dopo. Per riprogettare insieme alle giovani leve il nostro (e il loro futuro). Anche perché, altrimenti, cosa pretendiamo di insegnare ai comunicatori in erba? L’arte dello scasso? Un sogno farlocco in cui noi, per primi, non crediamo più da tempo? Mesi fa ho sentito un’intervista radiofonica in cui una nota giovane cantante parlava della sua laurea in “stronzologia”. Voleva dire scienze della comunicazione. E possiamo anche discutere sull’inopportunità o volgarità di tale dichiarazione e tutto il resto. Ma prima di tutto dobbiamo prendere atto, seppure dolorosamente, che qualcuno, alla radio, i comunicatori li chiama “stronzologi”. Poi va da se che non lo siamo, che gli episodi di cui accennavo sopra riguardano solo alcuni operatori del settore e che purtroppo gettano nel fango il faticoso e sudato lavoro di tutt’altra razza di professionisti. Seri, responsabili e onesti. Ma si sa, viviamo in un mondo in cui 5 albanesi rubano e automaticamente l’Albania diventa un paese di ladri. E i pregiudizi, una volta consolidati, per quanto odiosi sono difficili da confutare. Soprattutto se nessuno si prende la briga di farlo. E a questo punto servono a poco le associazioni a cui deleghiamo la nostra difesa e reputazione se sono fatte da persone che non sono in grado di difendere neppure la propria. Detto questo, o ci si dà una mossa anche a costo di ricominciare da zero, o si cambia davvero vita e a cambiare la professione delle Relazioni Pubbliche ci penseranno, se ne avranno voglia, le generazioni successive. Se non ne avranno voglia i comunicatori saranno giocoforza condannati all’estinzione. Un po’come i maniscalchi e gli impagliatori. Ma, almeno per il momento, è un rischio non così incombente. Perché qualcosa si muove. Gente che si reinventa. Gente come me che nel weekend sogna di servire mojitos per il resto della vita, ma poi basta un nuovo progetto che si parte subito in quarta anche se l’armatura ha qualche ammaccatura e non è proprio lucidissima. O come la Gianna, che a 51 anni non ha più voglia di fare la paladina ma mentre lo dice salta in sella. E, mi spiace contraddirti Gianna, ma in sella non ci si limita a sognare. Si ricomincia a correre.